Il diavolo nella mia libreria
(…) A prima vista sembrerebbe che il diavolo fosse fornito di una fantasia limitata perché non sa presentare che i piaceri del senso, sino a cadere nel ridicolo come quando si presenta a una monaca sotto forma di una bellissima lattuga. E questo è raccontato da San Gregorio. Ma si vede che il diavolo sapeva che a quella monaca piaceva molto la lattuga. Nei grandi ricevimenti che il diavolo dà, che cosa si fa? Si mangia, si beve. E dopo? Sempre quella cosa. Sì, capisco: si possono raddoppiare le dose, si può arrivare alla raffinatezza moderna. Ma è pur sempre quella cosa! Un senso di sazietà e di stanchezza invade l’uomo. Certo la donna, come colei che ha la voluttà più diffusa, ma assai meno intensa, resiste meglio. Ma infine che poca cosa hai tu da offrire, o Satana, all’uomo! “Vi posso anche offrire – mi risponde Satana – i piaceri dello spirito: uccellino libero dentro la gabbia di bronzo”. Bisogna riconoscere che Satana dispone anche di altre seduzioni di una sensualità più elevata, di cui si vale con personaggi qualificati e molto onorevoli: la vana gloria, l’orgoglio, l’avarizia sotto lo splendente aspetto dell’oro; e allora accadono quegli spaventosi cataclismi che si chiamano guerre, o se questa parola dispiace ai nostri buoni proletari, diciamo rivoluzione, che è lo stesso. E certo che Satana presentò agli occhi del Kaiser non la solita donna; ma il genere umano da asfissiare, affondare, bombardare: premio, l’impero del mondo. E quel disgraziato si lasciò sedurre! E dopo tutto questo si è levato nel nostro Parlamento un grande deputato socialista e ha proferito parole come il Papa: ha detto che l’umanità deve espiare il delitto della guerra. Questa cosa ha fatto una grande impressione. Anche a me: ma quando ha detto che è la piccola borghesia italiana quella che deve espiare, che è proprio quella che meno ha colpa, ed ha – caso mai – espiato con la sua distruzione, mi è venuto da ridere. Io avrei capito che il Papa vero, quello che è erede di Colui che pone per fondamento la rinunzia, avesse parlato così. Ma chi vuole la conquista, come sarebbe, ad esempio, la dittatura del proletariato, come può rifiutare la legge della guerra? (…)
I giorni del sole e del grano
Un mezzodì scendo di bicicletta con un sole che non ci vedevo nemmeno più. Mi si para davanti Finotti: in gran mistero mi dice: Lei è vecchio, io sono quasi come lei. Posso parlare in libertà. Venga che bisogna che veda. Pensai a qualche disgrazia: le donne, la figlia… Lo seguii, e mi fa entrare nella stalla. Si trattava della vacca. Diedi un respiro. - Glie la devo dare o non glie la devo dare la medicina? Io non ricordavo più, ma le cose stavano così: c’è nella stalla una vaccherella, di quelle nere olandesi, che dà il latte bianco mattina, sera e mezzodì. E’ una vaccherella quasi signorina, si può dire, perché è di prima figliatura, così buona e docile che ci può andare sotto la Rosina a studiarla, come dicono qui per dire: mungerla. Virtuosa anche; troppo virtuosa perché Finotti vuole portare a casa il vitellino, o meglio la vitellina, e lei non vuole andare alla monta, o almeno non ne dà segno. Perciò Finotti ha inforcato con le sue spaventose gambe la bicicletta, ed è andato dal veterinario. Rècipe: “polvere afrodisiaca Z*** per cavalle, vacche e scrofe: il giorno precedente a quello stabilito per la monta, si versa tutta la polvere entro una bottiglia di vino bianco e generoso. E dopo aver buttato nella gola della bestia tutto il contenuto della bottiglia, si attende, ecc.”. Siamo, dunque, nella stalla. - Stia a vedere! Mostruoso! La vacca pareva volesse abbracciare l’uomo. La sua testa, con la lingua fuori, si avvolgeva attorno al braccio dell’uomo. La schiena lucida e nera, si contorceva in modo umano e pietoso. Un bramito usciva dalle sue viscere; le carni si dilatavano. Proprio depùduit come Fedra. - Tu gli hai dato la medicina! - No, che non glie l’ho data: la bottiglia eccola qui. Venivo bene a domandarle se la devo dare sì o no. - Mi pare, – risposi, – che la signorina non abbia più bisogno dello champagne. - Mi pare anche a me. Lui guardava con rincrescimento quella bottiglia che, diceva lui, era vino da messa, e avrebbe potuto berlo lui senza quella droga. Quello che costava la bottiglia, quello che costava la droga!… - Per fare in fretta, qualche volta invece di far bene si fa male. Se aspettavo un giorno, lei veniva da sé senza andare io a comprare la medicina. Così si querelava Finotti. Io guardavo la vacca. Vedere la natura umana riflessa in una povera bestia, la più innocente delle bestie, che sta lì, incatenata alla greppia, rumina l’erba e dà il suo latte; e ad un tratto si divincola, si torce, diventa feroce, gli occhi gettano fiamme di lubricità: una forza la domina, procreare… No, non è possibile che Dio nel Paradiso terrestre abbia così imaginato la perpetuazione su la terra delle sue creature. No, questa fu opera del Demonio. Io pensavo così; Finotti guardava la bottiglia.
Viaggio di un povero letterato
(…) Io la fabbricai la piccola casetta – si è vero – per mia pace e de’ miei, e questo è un lusso, lo riconosco; ma anche per ricoverare vecchie cose, vecchie masserizie, errabonde come me per i tanti anni; le quali mi pareva che domandassero, anche esse, pace ed asilo. Le ho ricoverate nella casetta, sì che la camera da letto sembra quasi una bottega da rigattiere! Ma quando di luglio, alle quattro del mattino, spalancavo gli scuri, e dalla gran finestra entrava, io non so bene, se la luce dei pianeti e delle stelle o del nuovo giorno, e poi il fiammeggiare dell’aurora dal mare, era una gran letizia, una gran frescura: e, nel silenzio profondo, io udiva un bisbigliare tenue: “ringraziamenti”. “Ringraziamenti”, dicevano le vecchie cose. Levava io appena la testa dal capezzale, e vedevo il sole che si allungava per istaccarsi dall’azzurro del mare: e subito, da così lontano, mandava già pennellate d’oro su le pareti. (…) Aprivo anche l’altra grande finestra che guarda verso il sole quando tramonta; e si vedeva, nel cielo di perla ancora, declinare giù la falcata luna. Pareva che la Madonna azzurra, che è sopra il letto, ora navigasse col piè posato sull’arco della luna. E la frescura dei campi, salendo, dicea: “Noi siamo la giovinezza che non tramonta!”.
Le avventure di un oratore ufficiale
La commemorazione, ovvero sia l’elogio del Pascoli, come si diceva una volta, doveva essere tenuta, nell’agosto del 1923, nella sala dell’Arengo di Rimini – restaurata dopo il terremoto – quando di Rimini le vie sono ancor liete di forestieri, bagnanti, dame vere, dame finte, mondo estetico, mondo del macao, pescicani ecc.
Io pensavo a quella che si dice la quarta dimensione: la quarta dimensione è l’Italia. Paese fatto a modo suo dal Signore Iddio!
Quel povero Pascoli, tanti anni fa, povero, orfano, vagabondo, quasi reietto, passava per questa città e borghi di Romagna, per di più con quella brutta faccia di poeta, ed ora? Tutti lo vogliono, tutti lo commemorano. Anche l’Arengo! I collegi, dove stanno in prigione i giovanetti, si chiamano da Giovanni Pascoli.
Ma per questa estate 1923 non se ne fa nulla: volevano ad ogni costo Mussolini in Romagna: tutte le città e borghi lo volevano; come Omero, ché tutte le città di Grecia si disputavano i natali del gran cieco e mendico sublime.
Mussolini non è venuto, e io sono rimasto parato con la mia commemorazione per tutta quella estate, come il prete in sagrestia, in attesa di cantar la messa.
Qui dovrei spiegare perché io ero l’oratore ufficiale dell’elogio sul Pascoli nell’Arengo di Rimini. Questa è una lunga storia, ma non starò a raccontarla. Prego di credere che io non ne feci domanda! Anzi, tutt’altro!
Io credo che Giovanni Pascoli sia uno degli ultimi martiri, cioè testimoni di quella gran fede che fu la poesia (dico che fu, perché la società umana che si sta preparando, farà a meno della poesia); e la condizione di San Sebastiano, in cui Benedetto Croce e i suoi arcieri hanno ridotto Giovanni Pascoli, mi conferma nell’opinione che Giovanni Pascoli è un poeta per davvero, e insieme è un martire – ripeto – del religioso sogno che le Sante Muse donarono ai mortali.
E come mai un poeta di tanta gentilezza spirituale, quasi asceta, e così amante di pace, poté nascere fra questo popolo di Romagna, il più allegro e generoso del mondo (a non toccarlo negli interessi), ma rissoso, clamoroso, sensuale, e pochissimo spirituale? Paese con la quarta dimensione – ripeto – è l’Italia.
Mettere insieme con delicatezza tutte queste cose non era impresa facile; e a me nel fare e disfare il discorso sul Pascoli veniva da ridere spesso, perché mi pareva di essere un Re che deve leggere il discorso delle Corona, formato da tutti pezzetti di tarsio, ben lustri e pesati sul bilancino, al fine di accontentare tutti … e nessuno. Veramente lo stolto ero io: invece di star tanto a pensare, bastava che avessi levato un inno incondizionato, violento, disperato, per trenta minuti, “al poeta della Bontà” e avrei accontentato tutti.
Gli uomini si nutrono di sangue, ma si commuovono tanto quando si parla loro della Bontà.
Povero Pascoli! Egli passerà alla storia con questo bel titolo, che è appunto quello che in cotonina bianca, e gran lettere nere, distesero davanti alla sua casa di San Mauro: “Al poeta della Bontà”.
E Mussolini?
Eravamo nel 1923 ed io tremavo un po’. Mussolini nel 1923 era un Dio! Ed io sapevo due cose: primo, che un popolo quando crea un Dio, è per la voluttà di crucifiggerlo. Questa cosa è accaduta in molti paesi del mondo, ma in Italia è (come dire?) una specialità. In secondo luogo in Italia esiste un’altra specialità: tutti quelli che vollero sanare l’Italia (per usare un verbo dantesco) non sono riusciti, e la loro fine non fu beata: Federigo secondo, Arrigo Settimo, Dante, Cola di Rienzo, Machiavelli, Francesco Crispi, Cavour morì arrabbiato.
E allora l’Italia era piccolina, tra i quindici e diciotto milioni di abitanti! E oggi sono quaranta i milioni di italiani, e tutti con diritto di voto sovrano!
(…)