Panzini, un giovane Holden sulla riviera
S’intitola Cabine! Cabine! il saggio, non molto noto, e praticamente ormai introvabile, di Pier Vittorio Tondelli contenuto nel catalogo Ricordando fascinosa Riccione, Grafis Edizioni, 1990, che poi confluirà, modificato in modo abbastanza significativo, in Un weekend postmoderno (Bompiani, 1990).
Il 22 giugno 1990 si inaugura al Palazzo del Turismo di Riccione una mostra imponente, suggestiva e dal punto di vista dei contenuti davvero importante: è il racconto, per la prima volta in forma sistematica, delle contaminazioni letterarie non solo di Riccione ma della Riviera romagnola. Ricordando fascinosa Riccione, appunto. Personaggi, spettacolo, mode e cultura di una capitale balneare.
Cabine! Cabine! nasce proprio così, per quella mostra di rara intelligenza cultural-turistica che fa memoria di un passato comune, in quegli anni lontani, a Riccione come a Bellaria Igea Marina: il Premio Riccione per il romanzo, nel 1947, e il Premio letterario, nello stesso anno, nella vicina città di Panzini, che fu vinto da Indro Montanelli. Poi, nel 1963 e 1965, il premio giornalistico Alfredo Panzini. Fra l’altro a presiedere la giuria del Premio Riccione è Sibilla Aleramo e fra i componenti spicca anche Cesare Zavattini. Nomi familiari nella cerchia “panziniana”.
Tondelli comincia ad immergersi nella città di Rimini e nella riviera a metà degli anni 80, quando esce anche Rimini, e poi sparge su riviste e raccoglie in saggi molte sue riflessioni su questo tratto di costa.
Riccione, Bellaria, Rimini sono, nei primi decenni del ‘900, località che attirano nobili, scrittori, giornalisti e persino il Duce ama farsi fotografare mentre spinge i remi di un pattino nella Perla Verde. A Bellaria la Casa Rossa è frequentata da Arnoldo Mondadori, Marino Moretti, Antonio Beltramelli, Renato Serra, Manara Valgimigli, de Pisis ed altri. Ed ecco come Tondelli descrive la riviera letteraria in un brano del suo Cabine! Cabine! (ripubblicato in: P. V. Tondelli, Riccione e la riviera vent’anni dopo, a cura di Fulvio Panzeri, Guaraldi, 2005) e in particolare gli ampi e interessanti riferimenti ad Alfredo Panzini:
“A questo punto ci siamo già addentrati in uno degli aspetti più appassionanti della ricerca, e cioè la tradizione letteraria emiliano-romagnola. Per me, ha avuto l’effetto di una vera e propria scoperta. Nomi di autori come Alfredo Oriani (1852-1909), Antonio Beltramelli (1879-1939), Alfredo Panzini (1863-1939), Marino Moretti (1885 – 1979), Dante Arfelli (1921 – 1995) o lo stesso Antonio Baldini (1889 – 1962), sinceramente non mi dicevano molto, a parte reminiscenze scolastiche o approcci casuali. Eppure la loro lettura si è rivelata interessante e feconda. (…)
Per il Padrone sono me (1922) di Panzini, addirittura inaspettati risvolti di contaminazione dello stile aulico con echi gergali e costruzioni tipiche del parlato: un giovane Holden sulla riviera, furbo e sarcastico. (…)
Non è il caso qui di soffermarsi sugli aspetti tematici e sullo stile di questi autori, quanto giustificare la loro presenza in una ricerca dedicata agli scrittori e Riccione. Poiché i campanilisti obietteranno: Panzini racconta di Bellaria; Pascoli di San Mauro; Moretti è di Cesenatico; Dante Arfelli, pure; Oriani prende il sole sulla spiaggia di Rimini Marittima; e Beltramelli, che è della campagna forlivese, se va al mare, preferisce raccontare dei pescatori di Comacchio. E’ verissimo. Così come altrettanto vero è che il racconto di Valerio Zurlini La prima notte di quiete di un Lord Jim casalingo, in realtà è ambientato nel fuori stagione riminese. O che il racconto di Mario Luzi del 1950, (…) non si intitola Riccione bensì Cervia. (…)
Tutto vero. Ma anche tutto profondamente coerente a una sorta di sfida intellettuale che il nostro lavoro tende a lanciare: vedere, cioè, la riviera adriatica, da Comacchio a Gabicce, come un’unica grande città. (…)
Se guardiamo, come interessa fare in questa sede, la storia letteraria della riviera adriatica assunta nella sua complessità, possiamo esclamare col Panzini del Viaggio di un povero letterato (1919): “Oh Romagna, dolce paese democratico! Oh, Romagna, generosa Romagna, forte ed ospitale Romagna!”
Un aspetto che colpisce nelle rappresentazioni marine degli autori di cui abbiamo finora parlato – si tratti di imprese guerresche, di battaglie, come di naufragi o di battute di pesca – è l’uso abbondante di immagini terrestri, se non addirittura contadine. Attraverso l’uso di metafore e similitudini, il madre Adriatico pare un prolungamento della campagna romagnola. C’è una continuità fra la terra e l’acqua, rintracciabile non solamente in espressioni di uso comune, ma in sensazioni e immagini ben più interessanti: “Ora il mare, aperto davanti a me, mi pare una strada la quale conduca in giro per tutto il mondo” (Panzini). E’ in sostanza, la stessa continuità che abbiamo rintracciato nel banchetto descritto da Beltramelli. IN quale altra regione potrebbero servire i cappelletti (con tutto quello che comporta il loro ripieno) prima di un luccio o di un’aragosta? Se questo è vero, probabilmente funziona, linguisticamente, anche il contrario.
Così è nata la sezione, forse più curiosa, forse più divertente, della nostra ricerca. Dapprima una semplice intuizione critica ed espositiva. Poi, lavorando, cercando, risistemando, stimolando altre riflessioni, una specie di vera e propria metafisica delle navigazioni in bicicletta.
Prendiamo le mosse dal Panzini della Lanterna di Diogene (1907), straordinario viaggio in bicicletta da Milano a Bellaria: “L’undici luglio, alle ore due del pomeriggio, io varcavo finalmente, dall’alto della mia vecchia bicicletta, il vecchio dazio milanese di Porta Romana. La meta del mio viaggio era lontana: una borgata di pescatori su l’Adriatico, dove io ero atteso in una casetta sul mare: questa borgata supponiamo che sia non lungi dall’antico pineto di Cervia e che, per l’aere puro, abbia il nome di Bellaria”.
L’itinerario di Panzini segue la dorsale della via Emilia con una curiosa deviazione verso le località turistiche dell’Appennino modenese e una sorta di appendice a Comacchio. E’ un viaggio non solo di ricordi letterari – si va da Omero e Virgilio a Dante e Petrarca, all’Ariosto, al Manzoni, a Carducci, a Pascoli, ai cui luoghi è dedicato un intero capitolo – ma anche un piccolo viaggio interiore che finisce, come ogni viaggio paradigmatico, con la morte; in questo caso con una doppia morte: quella della stagione che si avvia ai freddi invernali e quella dell’autore che immagina il proprio corteo funebre al Cimitero Monumentale di Milano. La sensibilità decadente produce in Panzini strane commistioni: ci sono le bellissime pagine in cui l’autore visita il cimitero in cui Giovanni Pascoli pensò, per i propri morti, le Myricae e ci sono le battute grossolane, l’ironia pesante, il dialetto dei contadini.
Strane davvero queste divagazioni in bicicletta di Panzini. E’ come se il suo viaggio, fra zampetti di Modena, salsicce e anguille di Comacchio, andasse alla deriva della sensibilità emiliano-romagnola (fatta soprattutto di cibi) e il senso panico della morte e della dissoluzione; che arriverà fino alla “componente memorialistico-mortuaria” (Brevini) delle poesie di Tolmino Baldassarri, o alle zone d’ombra, fra nevrosi e malinconia, dei comportamenti di Raffaello Baldini a proposito dei quali non ho altre definizioni che la parola “blues”.
Eppure in Panzini non avverti mai l’inconciliabile angoscia della tragedia. E questo, credo, perché il senso della natura, dell’attaccamento alla terra, del volgere delle stagioni è radicato e fortissimo: “Tutto ciò come si ripete malinconicamente! Come la legge delle cose domina, e non riuscirai no, a sterilizzarla”.
Circa trent’anni dopo il vagabondaggio panziniano, nell’estate del 1941, Giovannino Guareschi ripete, a suo modo, l’impresa. Diverse sono le sue motivazioni, leggermente differente l’itinerario che, una volta raggiunto l’Adriatico, prevede il rientro a Milano attraverso la linea Ferrara, Verona, laghi di Garda, d’Iseo, di Lecco, Maggiore e d’Orta: milleduecento chilometri che daranno vita a una serie di cronache pubblicate sul Corriere della Sera sotto il titolo Un giretto in bicicletta. (…)
Panzini, Guareschi e infine il giovane Lassandari percorrono le stesse strade a distanza di vari decenni l’uno dall’altro. Addirittura, fra il primo e l’ultimo, passano ottant’anni. Ma il modo di pedalare, di affrontare gli ostacoli, di trovarsi controvento, di faticare, di dialogare con la natura è identico. Viaggiare in bicicletta è soprattutto un modo di pensare. Di ricordare e di osservare. Forse, per quanto ci riguarda, è anche un modo di navigare. (…)
Il senso più importante di queste piccole navigazioni in terraferma è costituito dunque dalla lentezza e dalla possibilità di sperimentare la natura, i colori, gli odori, le montagne in un modo nuovo. E questo, abbiamo visto, è già in Panzini e, con un contenuto di sarcasmo anticonsumistico straordinariamente in anticipo sui tempi, anche in Guareschi, mentre in Lassandari si tratta più di una sfida muscolare-ecologica. (…)
Dobbiamo ricordare che De Pisis ha vissuto lungamente sulla riviera adriatica. Cesenatico, Rimini, Riccione. Tutte le estati della sua gioventù, dapprima con la famiglia, che era di Ferrara, e che abitualmente villeggiava a aCesenatico. E in un secondo momento, quando tornò da Parigi allo scoppio della guerra, nel 1938. Da giovane faceva lunghe gite in bicicletta, andava a trovare Panzini, per esempio. Una volta gli disse: ‘Caro professore, lei forse non lo sa, ma io sono un grande genio’. (…)
Ma non abbiamo parlato della sensualità e dell’erotismo. Facciamo un passo indietro e torniamo al professor Panzini che, nel Padrone sono me, ci consegna alcune gustosissime battute su questo tema: “Quand’era notte, dopo la mezzanotte, si sentiva far la serenata con la chitarra e il mandolino, e una voce cantava: ‘Amore, amore, amore!’ Il padrone spalancava la finestra e gridava: ‘Ma basta con questo amore! Abbiamo il diritto di dormire’”.
Così, più avanti, quando il padrone non trova più il suo cane e il contadino gli rivela: “Cosa vuole, sor padron? In quella casa là, c’è una cagna in calore, e sarà andato anche lui a fare all’amore”. Il padrone, imbestialito, interloquisce: “Allora tutti fanno all’amore!” E il contadino, con la sua calma, replica: “Lei dice così, di giorno; ma l’ha da veder di notte, presso queste siepi!”
La pagina di Panzini, conformemente al tono dell’intero romanzo, è divertente. Ma anche assai esplicita. Ci troviamo in un luogo in cui tutti sembrerebbero non fare altro”. (…)