Enzo Biagi
L’ultima personalità di rilevanza nazionale a rievocare la figura di Alfredo Panzini è stata Enzo Biagi (1920 – 2007), che lo ha inserito nel suo Dizionario del Novecento, un repertorio che raccoglie “gli uomini, le donne, i fatti, le parole che hanno segnato la nostra vita e quella del mondo”.
Per scrivere questo suo personalissimo “Novecento”, il grande cronista-scrittore attinge dallo sterminato archivio dei suoi ricordi e delle sue esperienze. Di Panzini traccia, con l’aiuto delle confessioni della moglie Clelia, un simpatico quadro domestico.
Panzini si guadagna pure una citazione alla voce “sesso”, che così comincia: “Diceva Alfredo Panzini che il pudore delle donne lo hanno inventato gli uomini”.
“Panzini, Alfredo – «Alfredo – mi raccontò sua moglie – era un tipo un po’ strano, ma qui in Romagna lo sono tutti. Per decorare il soffitto della camera da pranzo impose ai pittori, al posto dei consueti pavoncelli e delle solite roselline, una parola: stracci.
«Che cosa vuol dire? gli domandai meravigliata. Vuol dire che queste stanze sono state costruite con tanta fatica e con pochi soldi, a forza di lezioni di grammatica ai ragazzini e di elzeviri pagati male»
Mi accompagnò nello studio del «professore», come lo chiamavano i mezzadri. C’erano sulla scrivania i registri dei conti colonici, con le nascite e il peso dei vitelli, la resa del grano e delle verdure, le ricevute delle tasse pagate e qualche edizione dei classici latini.
C’era anche la «napoletana», la macchinetta con la quale, ogni mattina, alle 5, si faceva il caffè prima di mettersi a lavorare. Spalancava le imposte e sentiva il respiro del mare e il profumo della terra ancora umida di rugiada.
Gli piaceva vivere da questi parti: c’erano i suoi pochi amici, sensali, pescatori, ortolani, andava volentieri in piazza a trattare la compera di un paio di buoi o a vendere una nidiata di maiali. Veniva a trovarlo in bicicletta Marino Moretti, il solo letterato con il quale aveva confidenza.
A Milano e a Roma si sentiva in esilio, fuori dal suo mondo.
Indossò, forse con un certo orgoglio, la divisa di accademico d’Italia, con le frange d’argento e la feluca, perché stava a indicare una delle poche vittorie della sua vita: lo avevano umiliato come insegnante, bocciandolo ai concorsi, e qualche volta stroncato come scrittore.
Ha detto: «Ho mutato il dolore in quello che, qualcuno, benevolo, chiama umorismo»
Carlo Bo
Carlo Bo (1901-2001), nell’Eredità di Leopardi, si preoccupa di rievocare diffusamente l’adolescenza di Panzini, e in particolare gli anni trascorsi al collegio “Marco Foscarini”, responsabili di avergli lasciato nell’anima quel “sedimento d’amarezza e di risentimento” che lo accompagnerà, nonostante i successi personali, per tutta la vita.
Bo ricorda l’impatto devastante, sul quel ragazzo carico d’idealismo, dell’arroganza dei suoi compagni di scuola, dai comportamenti dei quali scopriva “il movimento della forza, della potenza, della ricchezza, dell’arbitrio e del sopruso”, che, a dispetto delle belle parole e della morale pubblica, governa implacabile la vita degli uomini.
Suggestiva la comparazione con D’Annunzio, in cui Bo legge la contrapposizione tra due concezioni antitetiche esistenziali prima ancora che letterarie. Bo sostiene che questi due scrittori sono un esempio di identità assoluta tra arte e vita, e che quindi il prevalere dell’uno sull’altro nel favore del pubblico ricalcava le oscillazioni del gusto e della morale. Non è un caso che il successo di Panzini, “vent’anni di trionfi, di applausi, di riconoscimenti della critica e dei lettori”, coincida con l’affievolirsi dell’euforia intorno al “profeta della gloria, del piacere e della libertà”, e Bo avanza l’ipotesi che la presa d’atto da parte dell’opinione pubblica dell’intima povertà, nascosta dalla magniloquente apparenza, dei miti dannunziani sia stata favorita dal magistero panziniano.
Bo è convinto che l’immagine presentata abitualmente da quotidiani e riviste di un Panzini umile e bonario alle fiere di paese mischiato alla folla di mercanti e compratori, sia stata un “farmaco” per le giovani generazioni, soccorrendole nel conservare “il senso delle proporzioni e soprattutto a non disprezzare il metro della realtà e della cose”. Insomma, per il giovane Bo, Panzini ha rappresentato un saggio invito alla moderazione contro la demoniaca hybris dannunziana.
“Forse Panzini, certamente il Panzini migliore, sta nella dura vocazione degli inizi, nel contrasto primo con la realtà. Bisogna per questo mettere in luce il fondo di forte resistenza degli anni dell’adolescenza, gli anni di scuola e soprattutto quelli del collegio a Venezia, beninteso non dimenticando di tenere il pedale sull’importanza determinante della vita familiare. La storia della sua famiglia è alla base della concezione sentimentale che lo scrittore ha della vita ed del mondo, né si esagera quando si dice che dalla storia della famiglia egli ha conosciuto, come il Pascoli, il volto chiuso e irrimediabile del male e del dolore. Ci sono a questo proposito continui ritorni nelle pagine della maturità: ricordate che il Panzini dei viaggi al momento di salire il Catria, nella notte di Scheggia-Pascelupo, è fulminato dal ricordo del disastro della sua famiglia e questo ricordo sarà così forte da essere identificato addirittura con i luoghi: il sentimento a un certo punto sovrasta, sopraffà tutto e diventa luce, memoria delle cose. I suoi erano, dunque, sentimenti concretati, tradotti in immagini sacre, o almeno inviolabili per una forte soggezione di carattere sacro. Dei suoi primi anni sappiamo poco, sappiamo soltanto quello che egli stesso ci dice in rari momenti di passione, potremmo nella luce di pochi singhiozzi ma quel poco che riusciamo a intravedere ha sempre conservato nella sua memoria un peso assoluto. La vita di Rimini, il fallimento della vita del padre, il dolore e le pene della madre e poi il senso della clausura e soprattutto il senso dell’ingiustizia, così come gli è apparsa per la prima volta a Venezia, in collegio, con l’aggravante della consacrazione ufficiale, delle giustificazioni. Si direbbe che da quei colpi di sventura il Panzini non si sia più sollevato, forse non ha neppure tentato di capirli, di trovare una spiegazione di carattere umano: no, il dolore il sopruso rimasero fino alla fine degli ostacoli chiusi, insuperabili. Anche da questo punto di vista la vicinanza col Pascoli è abbastanza notevole, se pure ognuno ha scelto poi la sua vocazione e ha cercato di reagire, di dare una risposta a quelle prime domande desolate, gonfie di amarezza e di pena. Naturalmente non tutti i dolori generavano in lui gli stessi risentimenti: è chiaro che allo smarrimento derivante dalla situazione familiare era forse impossibile trovare una ragione mentre sarebbe stato più facile trovare una spiegazione alla serie d’ingiustizie di cui è stato vittima nel collegio veneziano. Ma l’ingranaggio di queste prime delusioni non è troppo semplice: oltre l’ingiustizia, che dipendeva dalla diversa situazione di sangue e di censo degli studenti, il Panzini era rimasto sconvolto dall’abisso che era costretto a registrare fra le buone parole, fra le invocazione e le proteste della scuola o almeno del rettore del collegio e la pratica della vita, il comportamento dei maestri. Panzini rimase profondamente contristato e offeso, soprattutto si sentì paralizzato di fronte a questa scoperta che faceva naufragare di colpo tutta la retorica della morale, dei buoni sentimenti: in quel momento egli fece per la prima volta la conoscenza con un movimento dell’animo che lo avrebbe sempre umiliato e avvilito, il movimento della forza, della potenza legata alla ricchezza, insomma il movimento dell’arbitrio e del sopruso, con tutto quello che si trascina fatalmente dietro di ipocrisie, di menzogne e di vergogne camuffate e travestite. Questa amara conquista, questa prima verità restò alla base di tutte le operazioni dello scrittore e vi restò come un masso irriducibile, come qualcosa che nessun altro sentimento umano, anzi nessun intervento divino avrebbero potuto annullare: perfino nei giochi dell’ironia, nella frase della satira il Panzini a un certo punto si sentiva raggiunto da questa forma di paralisi, era la memoria di quel “male”, era l’atomo pascoliano che gli impediva di andare oltre, di superare il livello delle apparenze, costringendolo alla fine a delle semplici variazioni.
Purtroppo su questo punto non c’è stato progresso: anche al momento della guerra del ’15 che costituisce il secondo grosso trauma della sua storia, anche allora nel gorgo della disperazione, si capisce che la partita era stata giocata molti anni prima e che l’uomo era inerte di fronte agli avvenimenti e giudicava la bontà, inutile. Non c’è posizione più pericolosa, non soltanto dal punto di vista dell’evoluzione interiore, non c’è posizione più pericolosa per la vita della nostra anima e il Panzini si è portato dietro questo sedimento di amarezza, questo profondo risentimento: la convinzione, cioè, che da una parte ci sono le buone parole, i buoni sentimenti e dall’altra il libero intervento del male, della vergogna mascherata. Se si ammette questo principio, nessun credito può essere concesso al dialogo, anzi all’ambizione che lo spirito sia libero di costruirsi un’idea sua, di viverla, insomma si nega il diritto di vita all’idea prima di fede. Ecco su cosa si basa il viaggio il viaggio umano del Panzini o, meglio ancora, su cosa articola la funzione del suo viaggio: l’uomo, tutt’al più, può arrivare alla notazione, a mettere insieme parole e fatti, in attesa che la realtà della vita si diverta a provocare gli scoppi di delusione, di dolore, di sconfessione.
Naturalmente su questa trama abbastanza semplice lo scrittore ha costruito la sua opera, e come tutti sanno, l’ha costruita non di colpo, tanto meno per una grazia indeterminata, per arbitrio, ma la contrario attraverso una seria e profonda divinazione, costante e controllata. Fra il primo Panzini che più denuncia il peso delle sue letture e il Panzini che tutti conoscono, arricchito di tutte le grazie della Musa, non c’è soltanto una differenza di realizzazione pratica: i suoi progressi consistono piuttosto in conquiste d’ordine interiore: una volta lasciata intatta la parte della formulazione vera, c’era tutto il tempo per correggere, per sfrondare, per diminuire il calore del discorso e raggiungere quella semplice e lineare vocazione dei suoi dialoghi minori, in cui sta appunto il maggior risultato degli ultimi trent’anni della sua straordinaria carriera di scrittore. Si aggiunga ancora che il Panzini –non è mai stato uno scrittore precoce- ha dovuto faticare per raggiungere il piano sicuro della sua scrittura: se leggiamo i suoi primi racconti, se teniamo presente soprattutto quel racconto che passa come esemplare della sua prima stagione, La cagna nera, vediamo che a quel tempo egli credeva di poter intervenire su un fondo più importante e di poter operare qualcosa di concreto verso il limite stesso della verità. In parole povere, al tronco originale delle sue sofferenze egli aveva aggiunto una materia più ricca, meno personale: c’era, cioè, in lui la tendenza a trasferire l’esperienza personale su un terreno più vasto, anonimo, semplicemente umano. Soltanto con l’abitudine del viaggio, soprattutto dal momento in cui ha brandito come arma di scrittore “La lanterna di Diogene”, Panzini ha ridotto le proprie ambizioni, riportando tutto l’accento su se stesso: il che non è, come generalmente si crede, un atto di presunzione o do egoismo ma al contrario un atto di modestia. È da allora che egli ha accettato il metro della musa minore, operando una specie di ridimensionamento con la sua stessa vita, con la vita del professore.
[…] Voi sapete che Panzini era coetaneo di D’Annunzio; provate a rifare insieme la strada delle due vite. Tutti e due nascono in provincia, anche se Pescara era allora soltanto un piccolo borgo estivo per i baroni d’Abruzzo mentre Rimini o la stessa Senigallia, dove Panzini era nato per caso ma da madre marchigiana, erano centri di civiltà, con una tradizione di cultura. Per tutt’e due l’esperienza del collegio: D’Annunzio va la Cicognini ma come figlio si signori, Panzini va al Foscarini di Venezia ma come vincitore di una borsa (e come gli ricorderà il rettore, la sua pensione viene ricavata sulla retta pagata dagli studenti di famiglia facoltosa). Basterebbe confrontare i ricordi dei due scrittori per gli anni di studio: D’Annunzio scriverà il Compagno dagli occhi senza cigli, dove per l’appunto la realtà viene trasfigurata dal sogno e le ambizioni crescono all’ombra del mito di Napoleone. Panzini non riuscirà a nascondere nei suoi rari ricordi lo sgomento di quegli anni: la sua adolescenza ci è riportata nel gioco più povero della realtà truccata e menzognera e non ci sono sogni di gloria, al contrario c’è il tirocinio di chi nella vita si appresta ad essere sfruttato in nome della morale, della religione: tutte cose che diventeranno altrettanti tabù, che lui Panzini si guarderà bene dal rovesciare e a cui resterà attaccato in modo del tutto sterile e inerte. Ma continuiamo: Panzini quando esce dal collegio, imbocca la strada dell’Università e fatalmente quella dell’insegnamento, senza alcuna vera vocazione, ma per non aver saputo o potuto fare altro. Sapete invece la fortuna che tocca al D’Annunzio adolescente: da allora non c’è stata più possibilità d’accordo o soltanto d’incontro. A loro modo D’Annunzio e Panzini hanno rappresentato per le prime generazioni del ‘900 due modi, due concezioni di vita. A D’Annunzio era legato il mito della vita eroica, della vita predestinata, al Panzini era legato il gioco dell’ombra, del piccolo segreto, della vita minima. Involontariamente chiunque era portato a scegliere fra questi due modelli e forse un po’ meno involontariamente i due scrittori erano costretti ad assumere il peso delle rispettive rappresentazioni. Meno evidente la posizione del D’Annunzio verso Panzini, assai più chiara e diretta quella del romagnolo verso l’idolo della gioventù italiana e il profeta della gloria, del piacere e della libertà. Non si potrebbe dire con sicurezza quanto l’immagine del Panzini abbia fosse voluta rispetto a quella del D’Annunzio ma quello che è certo è che non è possibile fare a meno del confronto e non per nulla il periodo del successo pieno del Panzini coincide con quello del silenzio e della stanchezza intorno a D’Annunzio. Nonostante che l’Italia ufficiale tenesse a mettere l’accento sulle code dei poveri miti dannunziani e si guardasse al Vittoriale come al tempio delle aspirazioni più alte. Il confronto è inevitabile, direi che per molti anni è stato alla base d’ogni approssimazione critica sul Panzini, il quale finiva per apparire come un dio più umile ma anche più adatto alla nostra misura. Così tutte le volte che si pensava alla figura dello scrittore romagnolo che appariva nelle giornate di fiera sulla piazza di Sant’Arcangelo o di altri luoghi di Romagna, tutte le volte che la cronaca e la critica letteraria mettevano l’accento sulla bonarietà e sull’amore semplice dello scrittore di Bellaria, si finiva per pensare a un altro modo di fare della letteratura. Panzini, senza volerlo, aveva riportato il mestiere delle lettere nell’ambito della famiglia, della piccola comunità, della borghesia e per onestà bisogna dire che questo fatto ha avuto la sua importanza: a suo modo, l’esempio di Panzini è stato salutare; se pure involontaria, la sua medicina ha aiutato molti giovani a non perdere il senso delle proporzioni e soprattutto a non disprezzare il metro della realtà e delle cose. Badate che quest’atteggiamento, che lo stesso Panzini non ha mai sottolineato, un po’ per paura, un po’ per delicatezza, ha avuto sulla storia del costume italiano un peso superiore all’altro strettamente letterario.
[…] Panzini si era foggiato un “positivismo a suo modo” e aveva ristretto in modo energico i confini della felicità. Una felicità alla Don Abbondio, che povero ideale nell’Italia dannunziana! Ma insomma per Panzini “la felicità stava nel vivere in pace” e l’unico modo di essere uomo era quello di non fare”né l’esploratore, né il navigatore, né il conoscitore di eroi”, ma l’uomo disposto alla forma meno vergognosa di compromesso.
La vita viene ristretta all’obbedienza animale, tutto il resto è sogno, o illusione, o gioco. Il limite del commento, quello che generalmente viene definito ironia, è stabilito inequivocabilmente e per sempre.
La parte migliore resta pertanto legata alla memoria. Scrittore d’antologia, scrittore di belle pagine, Panzini non si è mai curato di studiare sul serio l’impianto del romanzo o di determinare un “tempo” delle sue storie. Se il limite restava quello della bella pagina, è facile capire come il campo di osservazione tendesse a bloccarsi su due o tre motivi.
[…] Quando si parla dell’umanesimo di Panzini si dice forse un’altra cosa: Panzini aveva rinunciato a trovare una spiegazione alla vita, e allora gli bastava avere delle conferme: conferme che scopriva nei libri, nella memoria e nella falsa trasformazione della realtà. L’umanista dava la mano al commentatore dell’attualità ma raramente la rampogna andava al di là dell’allusione, del sospetto a mezza voce: lo scrittore non aveva più fede, e al momento decisivo, quando sarebbe stato opportuno trarre la morale delle cento favole raccontate sempre con maggior abilità, con una ricchezza di mezzi che stupisce dopo tanti anni, Panzini preferiva fare uno scarto: gli bastava aver messo in luce tutte le occasioni di ridicolo o, peggio, di colpa e di errore, ma era passata da troppo tempo l’ora dell’altra morale, della morale che non ripete e che non consente alla rinuncia.
Non lasciamoci fermare dai, dall’inevitabile meccanicità che a un certo punto fissa uno scrittore che ha conosciuto la gloria e il successo costante quotidiano –qualcosa come vent’anni di trionfi, di applausi, di riconoscimenti della critica e dei lettori comuni-: il Panzini che a un certo punto accetta di fare il commentatore, di restringere la parte del coro alla voce dell’ironia leggera non deve farci dimenticare non solo il poeta che è vissuto con lui fino agli ultimi giorni ma neppure l’uomo della coscienza, l’uomo che non è mai riuscito a nascondere bene la propria ragione, ciò che aveva imparato dalla madre e ciò che dopo gli ha insegnato la terra.
È sempre difficile morire con dignità, ma nell’anno in cui è morto Panzini lo era in modo del tutto particolare: in un tempo che non aveva riguardi e sacrificava alle mascherate, Panzini ha voluto essere portato semplicemente, senza onori, nel cimitero di Bellaria perché fosse soddisfatto il suo voto: poca terra, una tomba al sole. Un desiderio, un esempio di modestia: non dimentichiamolo, ci aiuterà a capire che anche nei momenti di distrazione, quando gli veniva naturale cedere all’altalena dell’ironia, il vero Panzini non staccava gli occhi dalla sua terra di Romagna, dal sole e dal mare di Bellaria: quello è il suo metro, anzi quello è stato il Dio, l’oggetto della sua fede. Dimenticarlo significa escludere Panzini dalla vita stessa e farne un semplice strumento di letteratura. A vent’anni dalla morte in fondo non sembra che la sua parola non esalti questa costante nostalgia dell’uomo onesto, dell’uomo cosciente e convinto dei propri limiti.”
Giuseppe Giulio Borgese
Constatando la quantità e l’importanza degli interventi riguardo Le fiabe delle virtù, si deve osservare, cosa sbalorditiva per il lettore, anche se colto, moderno, che l’opera costituì non soltanto lo spartiacque della fortuna critica panziniana, ma rappresentò un vero e proprio “caso letterario”. Per convincere gli scettici di questa, apparentemente, ardita affermazione basterebbe far loro leggere la lunga digressione sull’ultimo secolo di letteratura italiana che Giuseppe Giulio Borgese (1892-1952) ritiene necessario far precedere alla sua recensione delle Fiabe, al termine della quale a Panzini viene affidato il compito, in parte già svolto, di ricongiungere l’arte narrativa a quella drammatica, irrimediabilmente scisse, almeno in Italia, dalla morte di Alessandro Manzoni! Quando si legge che la prosa di Panzini ricorda quella del Trecento non si creda che Borgese intenda disegnare Panzini come un archeologo della letteratura, perché il passato è solo l’abito prezioso con cui riveste una sensibilità tutta moderna.
“L’arte narrativa e la drammatica italiane crebbero dopo Alessandro Manzoni, fuori della tradizione letteraria, che con Leopardi era già ridivenuta esclusivamente lirica e tale si mantenne col Carducci. Un intimo ardore meditativo, una dolorosa aspirazione verso la libertà della natura e del mito, un rimpianto della favoleggiata grandezza e libertà degli avi: tali furono per un cinquantennio i motivi ispiratori della nostra letteratura. Le passioni traversavano con strazianti gridi fugaci l’austerità di quei cieli poetici; i personaggi viventi apparivano e sparivano, entro quei candidi paesaggi sepolcrali, in un breve attimo statuario. Era un’arte di sintesi intransigente, remota, dagli abbandoni narrativi, dalla curiosa lentezza delle analisi, della gradualità degli svolgimenti. E i poeti italiani, cupamente concentrati nella loro individualità lirica, erravano solitari lungo le rive dei fiumi patrii (dove Arno è più deserto) e pellegrinavano ai cimiteri della storia, lasciando agli homines novi, ai Verga e ai Giocosa, le donne i cavalier l’armi e gli amori.
I Tristi amori in un senso, i Malavoglia in ogni senso sono opere di prim’ordine. Tuttavia si sentiva e sente lo stacco: si sente, paragonandoli ai Promessi sposi e all’Adelchi, che i drammi e i romanzi della nuova epoca hanno origini letterarie problematiche e sono pervase da un lirismo un po’ torbido. Abbiamo come due letterature: una dei morti, della mitologia, della storia; un’altra dei vivi, della società, della realtà immediata. E fra l’una e l’altra di queste due letterature non v’è scambio, e ciascheduna è chiusa in se stessa e ignara dell’altra. Pensate con quale lontananza Carducci parlasse del romanzo realista; e come romanzo e dramma moderni rimanessero sordi alla voce della grande lirica. Questa isteriliva nella sua purità; quelli fronteggiavano in un rigoglio indisciplinato. Ciò che in Manzoni fu uno si scisse; e parve che, per essere poeti, occorresse ignorare gli uomini; per conoscere e condurli sulla scena o nel racconto, occorresse chiudere i libri e rinunziare ai suggerimenti della tradizione. Tra un poeta di Bologna e un commediografo di Milano erano diversità di cultura e d’animo che raramente si notano in scrittori d’una nazione e di un’epoca: parlavano anche lingue, per struttura e per spirito, diverse.
Ma a Leopardi aveva pensato a un romanzo “psicologico”, e Carducci che già nella Faida di Comune e in qualche altra poesia cedeva a geniali capricci narrativi fu vicino alla tentazione novellistica.
Chi scioglierà nelle ampie forme del racconto e del dramma quel duro e abbagliante cristallo della lirica nostra? Chi da quella chiusa volontà trarrà un largo e vivo mondo di uomini e di cose? Domande che non attendono una risposta; poiché la risposta potrebbe solo darla il realismo lirico di un nuovo e diverso Manzoni. Domande che, malgrado la grandezza dell’arte di D’Annunzio, non trovano certo risposta nella sua prosa poetica, nel suo racconto utopistico, nella sua drammaturgia larvale.
Frattanto bisogna tener conto di Alfredo Panzini, che è sulla via: sulla via che da Leopardi e Carducci conduce a un’arte narrativa nostra innestata sul tronco della lirica italiana. Egli fu scolaro, prediletto, del Carducci, e, invece di svolgersi nel senso della dottrina o della pura lirica, ne intese un suggerimento più difficile e segreto. Quello che veniva dalle Risorse di San Miniato al Tedesco. Di lui erano note fino a ieri (non al gran pubblico) le Piccole storie del mondo grande e la Lanterna di Diogene; oggi ecco le Fiabe della virtù. Dicevano, dicono taluni ancora, che la Lanterna di Diogene è il meglio. A me non pare. Quel libro ha bellezze squisite; ma rivela ancora troppo chiaramente i vincoli che legano l’ispirazione del Panzini ai modi della prosa carducciana. Il racconto è appena accennato, il personaggio non si libera ancora dall’involucro della meditazione, dell’ironia letteraria, della divagazione polemica, del paesaggio risentito con l’aiuto della citazione classica. Nella Lanterna di Diogene il Panzini cerca ancora; nelle Fiabe della virtù ha trovato. Ha trovato quel suo modo di sentire la realtà circostante, la passione degli uomini vivi intorno a lui, perfin la cura economica della società moderna e dir queste cose con un amaro rimpianto della vita e ideale e naturale, come Leopardi e Carducci la cantarono. Questo rimpianto era detto nella Lanterna di Diogene; era un proposito, un argomento. Ma nelle Fiabe della virtù non è più detto, è presupposto; non è argomento, è sentimento; non proposito ma stile, musica intima, che da un divino pallore elegiaco al realismo del racconto, una sfumatura di sublime all’ironia del moralismo. Sono gli apologhi dell’inutile e vinta virtù, il “Bruto minore”, indebolito e analizzato, l’aspro scontento carducciano ammollito da un’accidiosa rassegnazione. Non v’è più la possibilità di crearsi una vita ideale fra le pagine dei libri, i ricordi dei miti, le iscrizioni dei cimiteri. La vita è troppo forte o Panzini è troppo debole per rifiutarla. L’accetta, ma non l’ama; la conosce, la studia, la narra; ma con diffidenza. Tale è la sua posizione verso la vita, quale già altri critici, il Cecchi ed il Serra, la determinarono per la Lanterna di Diogene e le prime novelle: curiosità attenta ed ostile di uno che preferirebbe, se potesse, vivere ancora tra gli eroici fantasmi di Leopardi e di Carducci.
Perciò non arte senza imbarazzo e senza timidità. Manca di decisione e di audacia; non ha lena per l’opera vasta, nella quale il creatore dovrebbe vivere fra le sue creature senza rimpianti e senza sospetto. Ma in questa posizione ambigua e transitoria è la singolarità del Panzini; da questa derivano le particolari bellezze della sua arte.
E questa è la prima di tutte le bellezze: che il Panzini è già riuscito a dare esempi di quel che la critica vorrebbe dalla letteratura italiana: un’arte di sentimento moderno e di forma schiettamente classica e nostra. Il senso della prosa italiana gli è venuto per il tramite carducciano; ma come rinnovato e alleggerito di ogni gravame accademico! È il nostro classicismo; ma dopo un tuffo in una fontana di gioventù. E non è classicismo ciceroniano o cinquecentesco o boccacevole; ma ha la magrezza e il candore del primo trecento. E la sua bellezza non è di parole rare e di frasi squisite e di cocci eruditi; non è di ricami e di grovigli; ma è bellezza di tessuto. A divenir pedanti si direbbe che la forza stilistica del Panzini non è nel vocabolario ma nella sintassi. Vi meraviglia per quella comodità e agevolezza con cui le parole s’adagiano l’una accanto all’altra nel periodo; ciascheduna con una sua sinuosità fragile e casta, con una sua lucentezza mattiniera senza riverberi insolenti. Non vi si trova la muscolatura eloquente e irta di Carducci, né la monotona rotondità dio D’Annunzio, né lo sfavillio accecante di Pascoli. Non v’è oricalco né paludamento. E le parole sono quelle del parlar comune, e talvolta v’è anche un idiotismo o un termine francese, e le frasi sono talora frasi fatte. Ma quando avrete fatto l’analisi di ogni parola, resta pur qualche cosa che vi sfugge: ed è quel lene snodarsi dei periodi l’uno dall’altro, or brevi, or lunghi, ma sempre diritti e correnti, e mai distorti dal loro significato per conseguire un’armonia prestabilita con la zeppa di un aggettivo superfluo o di un sinonimo ozioso. Voi mi chiederete perché la chiami trecentesca questa prosa. Basterebbe chiamarla bella prosa. Ma Panzini non l’ha certo imparata dai moderni italiani, e nemmeno dai moderni francesi, che son meno tronfii e goffi dei nostri, ma sono meccanici, come Panzini non è, e scrivono a scatti esattamente ritmati, come gli scatti di un congegno d’orologeria. Con questa misteriosa libertà di mosse, con questo confluire e refluire di lievi inversioni e di vaghe parentesi, con questo insinuarsi di particelle che danno inafferrabili sfumature al senso scrivevano i grandi francesi del seicento e, prima, i nostri umili trecentisti, e prima ancora i greci. Panzini appartiene alla bella razza.
E perciò i lettori non s’accorgeranno delle cose che io vo dicendo. Sentiranno solo, nelle pagine del Panzini, di respirare con petto sgombro, e forse non sentiranno nemmeno di aver dinanzi agli occhi una prosa come non si sente l’aria quando è pura e leggera. E non loderanno in lui un trecentista redivivo, ma un italiano moderno. Poiché tale è il miracolo dell’arte di Panzini: con quel gusto letterario vedere la vita così com’è intorno a noi. Non una sola volta egli è preso dalla smania rifare la corpulenta novella cinquecentesca, tutta fatta d’intrigo, né di parodiare, con non voluta canzonatura, l’ingenuità del trecento. La modernità del suo sentire è tale che anche i più moderni dei novellieri russi non han nulla da insegnarli; la sensualità – quell’unica volta che in tutto il libro appare – ben lungi dall’apparire ridanciana e sporcacciona è sottile e febbrile come quella di Maupassant. E, se il Panzini ha esagerato intitolando queste sue prose fiabe, non avrebbe nemmeno avuto ragione a intitolarle racconti. La narrazione è minima, e l’argomento si riduce a uno stato d’animo, a una situazione presentata in tutti i suoi spigoli e in tutte le sue luci. Quasi non v’è progresso, altro che di commozione, dalla prima all’ultima pagina. Chi dirà con parole che non siano quelle del Panzini ciò che si espone nelle chicche di Noretta? Una fanciulla orfana di buona famiglia si fidanza con un rustico di buon cuore: ciò avviene nella villa di un lontano parente nevrastenico e pessimista, burbero benefico. Quale miseria è il riassunto di questo squisito vagabondaggio sentimentale! È che la prosa di Panzini non ha né polpa né scheletro: è tutta quanta fluidità in concentrabile e inafferrabile. Passiamo alla seconda: Il padre e il figlio. Un padre laborioso e rozzo, un figlio idealista e sognatore, che scrive libri inutili e muore di fatica; e, solo quando muore, il padre s’accorge di amarlo. Ma quell’agonia è stupenda. Poi ecco L’ultima avventura di Sancio Panza: non vi resta nella mente che l’immagine abbagliante di una piccola città provinciale, solitaria nella canicola, ove giunge il protagonista commissario regio – quel protagonista che è sempre il medesimo brav’uomo di buona volontà, ma lievemente nauseato dell’inutile fatica e della virtù che pur pratica, sebben muti di nome e di mestiere. Poi Il regno tuo venga. Anche di questa non resta che un’immagine: il buon fanciullo studioso che torna solo di collegio nella casa paterna contaminata dal vizio e dall’onta. E dopo di questa I diritti dei vecchi e dei giovani; la famiglia giovane che vive al piano di sopra aspettando la morte delle due vecchie parenti che si trascinano, l’una cieca, l’altra cadaverica, nel piano inferiore. E Le avventure di un paterfamilias: Oronzo E. Marginati, perseguitato dal fisco e dalla decente penuria, ma divenuto quasi sublime. E finalmente la Repubblica delle lettere, che chiude con uno scherzo malinconico e leggero il libro, rievocando un’altra immagine provinciale: la città solitaria ove il dotto bibliotecario – fratello spirituale del Panzini – legge i classici antichi e impara a scrivere classiche novelle moderne.
Ora io non posso che indicare: indicare, per esempio, la morte di Marco nella novella che s’intitola Il padre e il figlio e la rappresentazione dell’ava cieca ne I diritti dei vecchi e dei giovani e le tre stupefacenti pagine dedicate alla bambina ultimogenita nelle Avventure di un paterfamilias, e, anche in questa prosa, la visita all’appartamento da affittare con quella figura di mondana e quell’impeto di vizio e di ribellione che, inatteso, gonfia il petto del galantuomo martoriato. Altro che indicare non posso: poiché per rendere ragione della mia ammirazione, dovrei trascrivere molte pagine, illustrando, insieme alla virginea purità della forma, l’accorata amarezza del sentimento: quella sfiducia umile, quasi ironica, non ragionata in questo libro, ma immediata come un gesto di umoristico sgomento, dell’uomo virtuoso e sensibile verso la crudele e grossolana società nella quale oggi vive. Echi del Bruto Minore e dell’Elegia maremmana si propagano in questa prosa fredda e dolente; ma il Panzini non catechizza il lettore e non esibisce una mentalità ragionatrice e dottrinale. E il suo animo si svela tutto uno e compatto, in un’unica emozione contenuta e tenace, senza quelle sottigliezze e quei doppi fondi, che turbavano talora il nostro godimento nella lettura della Lanterna di Diogene.
La bellezza di questo libro è già salda e sicura; ma il Panzini ha forza per procedere oltre. Ha già assolto un compito estremamente difficile: estrarre un organismo narrativo della nostra lirica classica. Oramai, padrone dei suoi modi stilistici e sentimentali, ha un largo e diritto cammino innanzi a se; e potrà osare costruzioni anche più coraggiose e più libere.”
Emilio Cecchi
Emilio Cecchi (1884-1966), uno dei critici più raffinati del secolo scorso, è il più assiduo recensore di Panzini. Con i suoi quattordici interventi, Cecchi, in un arco di tempo di quasi quarant’anni, accompagna Panzini dall’anonimato alla fama fino alla morte.
Come sottolinea Adele Dei, nel corso del convegno bellariese del 1983, “la linea interpretativa di Cecchi rimane in sostanza immutata, seguendo e registrando l’attività di Panzini con una partecipazione e una simpatia che suggeriscono quasi un rapporto di connivenza, un sospetto di consanguineità” .
Noi qui presentiamo il primo contributo, quello pubblicato nel 1910 su “La Voce” di Prezzolini. Questo scritto è basilare per l’aspetto critico-militante, ma pure estremamente prezioso per quello squisitamente artistico e letterario.
Innanzitutto bisogna interpretare la scelta di dedicare a Panzini, un autore pressoché sconosciuto pure alla cerchia intellettuale, un ampio intervento all’interno di una rivista prestigiosa come una dichiarata battaglia antiretorica e antidannunziana.
Panzini è considerato da Cecchi, e dal circolo “vociano”, la risposta, seppur rassegnata e disincantata, dell’antico ideale umanistico, ormai preso d’assalto dalla prepotenza e dalla volgarità della corrente dannunziana.
Notevolissimo è il tentativo di condurci, attraverso sublimi metafore e allegorie, all’interno dell’officina panziniana, mettendo in scena la genesi morale delle sue opere, mai scritte per compiacere soltanto il pubblico, ma nate sempre da un sincero turbamento interiore.
“Senza essere una forte tempra di artista, o compensare con una facile dovizia la mancanza di profondità fantastica, Alfredo Panzini attira l’attenzione di quanti, non lasciandosi troppo illudere dall’aggressiva rinomanza dei pochi scrittori in gran voga, aman chiedersi se nell’opaca zona retrostante allo sfacciato brillantìo della ribalta, non vivan per avventura ingegni sinceri, forze dirette a qualche scopo non ignobile, spiriti assorti in ricerche non volgari.
L’esclusivismo luminoso e l’audacia affermativa caratteristici dei temperamenti destinati a primeggiare gli son negati. Ed egli compensa queste doti carnivore con altre, certamente più lige ad equità, ma anche certamente meno fortunate.
Si respira nella sua opera quell’odore di decorosa miseria che è proprio delle famiglie della bassa borghesia, nelle l’insistere delle sciagure non ha potuto contro la durezza della virtù. Nella luce colata per le mura giallastre e filtrante fra in convolvoli che fanno rete alle povere finestre si mescola un odore ch’è insieme odor di cibo e di sudicio, rialzato dall’acuta nauseabonda fragranza dei farmaci dell’ultima malattia. Da un andito umido e ottuso si vedon le camere spoglie e melanconiche, e il lumino che vacilla in fondo a una di esse sembra vegliar perpetuamente un defunto. In un angolo di cortile, dove un raggio di sole batte sui vasi dei gracili fiori, giuocan due o tre bambini, senza alzar la voce, con una serietà che rattrista. Diffuso in quelle penombre e in quelle luci smorte è il sentore perenne della sciagura che incombe; e, se è possibile, a far più cupa e micidiale l’inedia, il visitatore, fatuo e avventatamente sentenziatore, mesce il suo consiglio ironico e il giudizio quasi insultante.
In un momento di profonda tristezza nacque l’arte di Alfredo Panzini, il cui ingegno, per parte sua, era di qualità di assorbir questa tristezza e quasi compiacersi di scavarla e approfondirla, piuttosto che fatto per averne ragione. Il che poteva darsi in più modi. Per virtù di compatto impeto lirico; per acutezza critica che sapesse risolver quella lassitudine nelle sue cause, rischiararla nelle sue tendenze, giustificarla nel significato; che sapesse, in una parola, dominarla; infine, per dono di pura e semplice fatuità. Vi son mali fra mezzo ai quali si passa incolumi, unicamente per il fatto di ignorarli. Ma Alfredo Panzini non era un’aquila lirica, non aveva l’occhio necessario a sviscerare a fondo i problemi dell’arte e della coltura, e non sapeva esser fatuo.
Posto sul confluente di due epoche molto diverse, rappresentate rispettivamente da Giosuè Carducci e da Gabriele D’Annunzio, nei suoi romanzi, nei suoi racconti, nella critica, egli è venuto esprimendo, con una velata accoratezza da reazionario, il rammarico di non aver potuto far ingenuamente squillar la sua poesia nei modi rudi e sereni del maremmano, e, insieme, di non aver potuto superare in un audace e sicuro umorismo gli atteggiamenti odiernissimi, che non lo soddisfano; mentre pur quell’umorismo approssimativo che gli è venuto fatto, sembra, ad ora ad ora, oscurarglisi d’intima sfiducia, quasi a dare inconfessatamente ragione alle cose ed agli ordinamenti cui sembrava volersi opporre:
«Son venuto sempre a questa conclusione: due e due fanno quattro, uno meno forma zero; gli uni hanno ragione ma anche gli altri non hanno torto. Ha ragione lo spiritualismo, come ha ragione il positivismo materialista; non hanno torto le masse socialiste e non hanno torto gli aristocratici del blasone e del denaro: ottima la pace, ma necessaria la guerra. Meravigliosa l’idea di un’unica umana famiglia, e pure santa l’idea della patria. Si progredisce con una gamba e si va indietro con l’altra».
S’intende come questo grazioso e inconsistente luccicar di problemi filosofici, morali e letterari, posti e sovrapposti e sempre scancellati a mezza dimostrazione, non possa non dare all’opera di questo scrittore un carattere d’imprendibilità, di irrequieta mutevolezza, che non è fatto per conciliarle la franca adesione che non discute.
Come nel suo spirito un’idea non può vivere della sua pura realtà logica e si cerchia sempre d’un sottil pulviscolo fantastico e sentimentale, gli intrecci dei suoi racconti, la scelta dei suoi personaggi risentono di questo ibridismo, e le sue figure hanno il sangue gelido dell’anfibio. Il suo romanzo è incamminato verso la critica, come la sua critica, anche quando più deliberatamente vuol essere critica, non sa rinunciare alle forme della narrazione. Ma se vi son narrazioni sostenute da un astratto mannequin, assai più grossolanamente di quelle di Alfredo Panzini, l’idea che ne costituisce l’anima, nel suo isolamento e nel suo dominio, può arrivarvi ad esser sentita liricamente, a riscaldarsi, di vivo pathos e a lasciare scaturire movimenti di arte vera. A cagione della sua stessa meticolosità d’analisi, della sua sospettosa scaltrezza, Alfredo Panzini non giunge a questo, che è condizione prima d’una poesia di più vasto respiro. I suoi libri son come una combattuta partita di scacchi, che ricomincia perpetuamente e perpetuamente rimane in asso. E la sua prosa cachettica traduce meravigliosamente questo lucido orgasmo, nel quale la curiosa di una sorta di fatalità storica per cui, oggidì, dopo Leopardi e Carducci, sarebbe impossibile una grande arte, contrastata col desiderio e lo sforzo inconsapevole appunto di scoprire le forme di quest’arte nuova.
Quell’abilità nel dedurre forme, frasi, epiteti, movimenti dagli scrittori aurei per accrescer dignità alla prosa moderna, che il Carducci nella sua opera di rinsanguamento della letteratura italiana seppe comunicare ai suoi migliori scolari, e così ad Alfredo Panzini, ci procura ad ora ad ora lo spettacolo bizzarro di parole che respirano la loro fresca e placida derivazione trecentesca, di modi dottamente latini, fermati in periodi che col loro asintattismo e le loro spezzature si chiariscono di così nervosa ed inquieta modernità come forse neppure il Panzini sospetta. Egli mesce nella coppa della sua poesia, mesce con mano generosa il luminoso nepente che le anime moderne sanno attingere dalla consuetudine con le divine opere dei padri. Ma poiché una tradizione letteraria, per quanto ricca, non può servir di moneta con cui si possan fare spese di qualunque sorta, e i cuori fertili e vigili hanno in fondo sempre un po’ di debito che li tormenta, spiccia sempre nelle pagine del Panzini, di sotto la rassegnazione storica, qualcosa da far vedere o intravedere, da confessare o da far sospettare.
Il passato, robusto ed arcigno, simile ad un vecchio assolutista, ultima colonna di una di quelle famiglie ruinate, sembra nella sua opera comprimere atrocemente, se pure involontariamente, gli sforzi del nipote troppo onesto per mandarlo al diavolo con allegria, e troppo debole per dimostrargli di fatto la sua indipendenza, col saper provvedere a se stesso e vivere a modo suo. «Abbi forza d’esser qualcosa di grande e degno» gli dice il vecchio, schiacciandolo con la sua severità, e pur incitandolo con la parola maestosa. E il rampollo sembra confessargli: «Volentieri! Ma, in fondo in fondo, non veggo di grande e di degno che te. Tu hai fatto tutto quello che io avrei voluto fare …».
La qual situazione non saprebbe certamente apparir molto feconda, se non si pensasse che questo stesso rammarico, poiché è sentito acutamente e da un’anima pura, è anche da solo motivo d’arte vero e legittimo, che, nella sua dimessiti e nella sua scialba tristezza, merita assai di più tanta impetuosa e applaudita retorica, molto più facilmente, e anche molto più vuotamente affermativa.
Sullo spirito del Panzini, nell’età della formazione, passò lo splendore e la rapina di una magnifica visione di arte e di vita. Nel suo libro sulla “Evoluzione di Giosuè Carducci” che, nonostante la scarsezza della documentazione, è certamente fra le poche cose serie scritte intorno a questo poeta, egli narra con parole commosse i giorni della sua gioventù che furon riempiti da quell’aura purissima e gloriosa. Ma esperienze siffatte possono esser tali da imporre definitivamente ad uno spirito minore che ne resti assorbito limiti ch’esso non potrà mai più superare. Ed, invero, in Alfredo Panzini è rimasta incancellabile la coscienza di questi limiti, benché la volontà di varcarli non per questo abbia del tutto potuto tacere. Giosuè Carducci, si sa, non capiva il romanzo. E il Panzini prova il romanzo, ma lo prova come intimamente persuaso delle ragioni di quella non comprensione, che era in fondo tacita negazione. Sicché, sviluppata una situazione la quale dai dati della piccola vita ch’egli predilige, riesce in vista ad una grande significazione, sa cogliere un soffio d’eternità, ecco che, subito, gli vien fatto di ritrarsi, in luogo di buttarsi a capofitto nel gorgo ch’egli ha scatenato, onde trovarne l’intima legge e domarlo. Piglia le sue precauzioni e mette il cuore in pace con una qualsiasi ipotesi, che potrebbe, d’altronde, senza nessun inconveniente, esser sostituita dalla sua opposta, davanti ai problemi filosofici o di grande poesia, quando gli si ignudano di sotto il viluppo dei fatti. Non sa che fiutare un po’ e tornar confessatamene un borghese. E lo fa con una tal grazia meneghina, la quale, nei suoi migliori momenti, può anche arieggiare un che di manzoniano. Sembra considerar tutto il moto della vita come serie di combinazioni destinate a muover la più o meno ben congegnata e più o meno acuta serie delle nostre osservazioni di sapienza spicciola. Ad ogni avvenimento, un pensiero isolato e ben schedato. E a sfogar questa smania di definizioni – non fossero che definizioni puramente ipotetiche – agli alberi lungo i fiumi e sui colli, ai mobili delle case povere e ricche, agli arnesi delle fattorie e degli opifici, ai libri solenni e puerili, a tutte le cose brute e mute, in una parola, concede libertà di parola, con una compiacenza che non ci urterebbe, se non vi sentissimo sotto un metodo ed un abuso. Il suo romanzo tende in ogni fibra a disfarsi in speciosi ragionamenti. E fuor che per questa difettosa caratteristica si riassorbe e si identifica coi tipi comuni sui quali si modellò il romanzo borghese nello scorcio dell’ultimo secolo.
In realtà, non nel romanzo lo preferisco. Troppo l’umorista che è in fondo a lui soffre di comprimervisi e camuffarvisi perché la sua irriverenza non abbia a recidere ogni tanto quella continuata e razionale illusione realistica della quale il romanzo non può troppo farne a meno. Dove il Panzini si concede maggior libertà, egli raggiunge anche maggior determinatezza. Perché allora ha a disposizione tutti i ferri dei suoi mestieri, e il professore vocabolarista e latinista, con scaltrezza di schiette etimologie, con le quali sa raggiungere una pungente succosa profondità, aiuta l’artista, mentre questi raggentilisce la polverosa dottrina e la pedanteria che quegli da solo non saprebbe completamente rispogliare. Ed anch’io credo che il suo capolavoro debba appunto cercarsi in quella Lanterna di Diogene, dove una specie di italianizzata forma-viaggio dell’Heine , non contraddice i più volubili volteggiamenti della fantasia che, gracile e inquieta, non può aver la forza di quelle laboriose concezioni che sostengono il pondo omogeneo e costante di tutto un libro. Allora si le ipotesi e le ironie, accarezzate, limate, sbalzate, niellate, come un argentiere squisito tratta una statuetta civettuola, e poi spezzate di colpo e rifuse d’un tratto in atteggiamenti analoghi ma differenti, fatte risaltare da grazie malinconiche e da asprezze sane ed acerbe, le quali ci rammentano che qualche stilla di liquido sole epico cola nelle vene di questo scrittore, si fanno amare, ci ridono in aspetti indimenticabili (per es. l’attrice), son qualcosa di schietto e di vivo. Poiché gli è impossibile scordarsi della letteratura, non domandiamo ad Alfredo Panzini quel vano sforzo che egli tenta nei suoi romanzi per darci una realtà ingenua, non vista attraverso le pagine dei libri e le lenti professorali dell’analisi e i veli delle reminiscenze.
Ingenuo egli riesce, come tutti, quando ci dà immediatamente la sua realtà interiore che pur è fatta, irrimediabilmente, anche di nostalgie libresche, di curiosità intellettualistiche le quali non possono esserne astratte ed isolate senza disfarne tutto l’equilibrio. Il suo mondo è un impasto originale di grettezza vissuta e di grandezza sognata, di ironia espressa e di lirismo represso. In visita al palazzo Leopardi a Recanati, dopo averci fatto sentire come egli sa partecipar nella colossale tragedia del poeta, egli si prepara giocondamente a discender pedalando la collina, e corteggia, frattanto, un’ostessa, che può rammentar quelle non meno simpatiche e paffute dei Reisebilder pur restando perfettamente latina. Il ricordo commosso mormora una preghiera alla divinità dipartita. Ma con quella disinvoltura un po’ ostentata delle persone che hanno un dispiacere in corpo, il professore Panzini debacca, mentre gli ridono i belli occhi promettitori.
Davanti ad un cialtrone affamato si domanda, con l’oscura inquietudine del borghese che si sa compromesso in una crisi la quale non gli è comprensibile appieno ma teme lo travolga, se veramente l’avvenire non andrà secondo l’inno di Turati, mentre studiando l’evoluzione carducciana, aristocrate come il maestro, si era sentito turbato dal «fango che sale» e vedeva nei suoi nuovi orientamenti della democrazia la causa prima della povertà dell’arte odierna.
Il presente lo commuove ma il passato l’ammonisce, e l’ammonimento talvolta può in lui più della vergine ma rischiosa emozione. Tanto più che la scuola alla quale egli si formò, lo dispose a interpretare il passato e la storia in guisa da credere che la loro sostanza fosse diversa, migliore e più possente, di quella che costituisce la nostra vita quotidiana e sopporta gli avvenimenti che vediamo svolgersi intorno a noi. Per una curiosa ironia quella scuola si battezzò appunto critica storica, e non dette né un corpus di grandi idee storiche, né un metodo veramente degno di questo nome. Era un poeta che principalmente la rappresentava, un grande poeta, e nella storia mescè troppo della sua poesia. Le epoche gli si risolvettero nelle grandi e fulgenti figure degli eroi, e l’oggi dei tersiti. Si cercò la poesia per dire che la poesia era defunta e l’età era frolla. Superba poesia come fece il Carducci; arte di schietta tradizione e d’imitazione come fece, per esempio, il Chiarini; arte assai più originale, rinnovata anche da uno spirito di cultura meno esclusivamente pedantesca, da un sentore più largo dei problemi e delle tendenze, dalla forza degli atteggiamenti nuovi che cercavano pur conculcati di trovarsi, come è stato nel Panzini. Una maggior severità interiore, o forse semplicemente una maggior maturazione dei tempi, avrebbe portato questi magari addirittura a disfarsi della sua arte e svolgere, amo immaginare nella storia, facoltà che nell’opera ch’egli ha dato si sono invece accavallate all’arte, fiancheggiandola, mischiandovisi, lasciandosi sedurre dalle sue grazie incerte e volubili, all’amplesso dell’ironia?
C’era nel Panzini il senso religioso del fatto storico. Ma il professore dalla umile vita, difesa dal misurato stipendio, inebriata di smisurata grandezza, non resisteva, davanti a taluna delle solari ridenti incarnazioni del latin sangue gentile, al gusto di tastarsi i guidaleschi, di straziare ostentandole le piccole miserie, e vendicarsene, in certo qual modo, facendo vedere di non vergognarsi a protestarle dinanzi a quella maestà. E la pagina solenne e severa gli finiva spontaneamente in un pupazzo e in una burletta, e questa si ritorceva in una considerazione malinconica, finché la considerazione malinconica si stemperava tendenziosamente in una dissertazione, poiché diverse personalità si agitavano in lui, né mi pare che mai egli riuscisse almeno a stabilir fra esse una ferma gerarchia. Così la usa opera resta a mezz’aria, senza prendere un aspetto ben definito; determinata, scolpita, bulinata con l’insistenza di uno scrittore lessicografo, rigo per rigo, parola per parola, nel suo aspetto generale è dubbia e ondeggiante, e meglio accetta riesce dove si è proposta questa inquietudine, questo ondeggiamento. Vale la pena d’aver perso uno storici per avere un ironista, giacché, in fondo, anche se il Panzini è restato inferiore alla propria ironia, e non ha saputo sfogarla e orientarla, non si può dargli che questo appellativo? Giro la questione alla buona volontà di qualche filisteo.
A garantire a quest’opera, qualunque sia il nome sotto il quale vorremo raccoglierla, la simpatia che non può mancare a gli sforzi dignitosi, basta la sua schiettezza, la sua asciuttezza, la rapida nudità che concreta le sue sobrie intenzioni”.
Due anni dopo, Cecchi, in occasione dell’uscita della raccolta di saggi Studi critici , completa l’articolo su Panzini de “La Voce” con una recensione a Le fiabe della virtù; testo che rappresenta la più alta celebrazione della poetica panziniana. La lettura di quest’opera provoca a Cecchi una tale folgorazione da spingerlo a rappresentare Panzini quasi nelle vesti del messia della classicità, atteso da tempo dalle “anime italiane più attente”. L’investitura di Panzini come erede di Leopardi e Manzoni nonché maestro per le giovani generazioni, non può non stupire profondamente il lettore contemporaneo che dello scrittore conosce a mala pena il nome. Proprio per queste ragioni, riteniamo opportuno riportare integralmente l’articolo.
“La solita voce, bassa, pacata, che si fa udire quasi con timore, di tra la baraonda contemporanea, a intrattenerci di cose obliate, a ridestare in noi la nostra anima lontana di bimbi pensosi, a risuscitar nelle memorie i sogni sognati negli angoli bigi delle case malinconiche, nei vesperi troppo lunghi delle solitudini prime ….. Ecco come Alfredo Panzini si accosta a noi, anche nel suo ultimo libro: Le fiabe della virtù.
Qualche cosa di estremamente umile e accorato ci dice: di tanto umile e accorato che, quasi, a momenti, per troppa dolcezza ci fa male. Ma sa anche disfare senza residuo, in fondo alla nostra anima, quei sedimenti opachi che la consuetudine con la retorica e la magniloquenza attuali, che l’abitudine alla disillusione davanti ad ogni nuova opera di lingua italiana, vi avevano lasciato. Chiudendo l’ultimo libro del Panzini ci sentiamo diventati umili, nudi, e, in quella improvvisa purezza, quasi ingraciliti. Ci pare che la cupa malattia verbosa contemporanea sia cosa di un ieri febbrile, per effetto di un incanto piccolo e potente, diventato già estremamente remoto; a quel modo che i pensieri funesti e i propositi insani, nell’anima di un uomo trafitto di inquietudini, si addolciscono di un tratto e vaniscono se, nella mano madida di quest’uomo, si insinua fresca la mano di un bimbo o di una creatura veneranda.
Non che l’arte del Panzini abbia la ingenuità delle cose puerili. Ha ormai la freschezza e la semplicità divina della classicità rinnovata.
Ma a dire dell’arte di questo scrittore, quale ci si presenta in questo ultimo libro, vorremmo uno stile che fosse lo stile stesso del Panzini o qualche cose di molto somigliante; giacché una modernità cristallina come la sua, non può rispecchiarsi senza distorcersi, che in una perfezione compagna. E in Italia, invece, quella lucidezza e levigatezza di lingua, oggi, forse, non le possiede che lui.
Nemmeno nei momenti di commozione più intensa, questo stile suo consente a inturgidirsi di enfasi lirica, a infittire le sue pause. Ma striscia terra terra, rotto, da periodo a periodo, pare insino disarmonico, mentre l’insieme dei periodi nella pagina, e l’insieme delle pagine nella novella, risulta di armonia stupenda. Magro, secco di suono, quasi zoppicante, la forza non gli è data dalla preziosità delle parole, né dal loro colore; né proviene dal fatto che il conio delle parole è stato placcato con smalti di epiteti eletti.
Ma le parole vanno nude e solette, e trovano il loro vigore, alla latina, per la loro posizione reciproca nella frase, nelle loro funzioni sintattiche, per via di inversioni di cui spesso, a prima vista, non percepite la ragione armonica; la quale vi si palesa, poi, quando di queste inversioni percorrete, con gusto grande di scoperte poetiche, tutte le pieghe, svolgete tutti gli ondeggiamenti.
Il Panzini non piglia le sue frasi e non le squadra, prima, con il martello e la cazzuola, come fanno i più grandi scrittori e, ce le danno tutte per un verso, come mattoni per piatto, con il rigo bianco della calcina frammezzo. Mura a secco, alla maniera degli antichi, senza più riempire i vani delle sue fantasie areate, con il calcinaccio trito e il fiacco cemento delle divagazioni, delle descrizioni, delle decorazioni. Forse nessuno scrittore italiano vivente può offrirci esempio, meglio di lui, di come lavorando d’arte si abbia a tener discosto ciò che il De Sanctis chiamava “fantasia”: attività poetica, veramente creatrice e inventrice, da ciò che chiamava “immaginazione”: attività combinatrice di svolgimenti e di adattamenti. Paragonate, a meglio intendere, Le chicche di Noretta, che contiene un po’ di questo riempitivo, alla novella, Il regno tuo venga, dove tutto vive e si muove per semplice virtù di affermazione, non spalleggiato di armature dimostrative, non bilanciato da contrappesi descrittivi, non impennacchiato di saggi di bravura paesistica, di svolazzi psicologici, quali son tanti cari ai nostri novellieri italo-francesi. In questa novella, e non solo in questa, il Panzini si imposta come un classico poteva impostarsi in una lirica. A voi lettori di oggi la parola “classico” può far l’effetto di azzardata. Siate certi che se ne scandalizzeranno meno i lettori di domani.
Va avanti, per via di successioni di copule non dissimulate. Una considerazione morale, ma semplice, men che modesta, di quelle che paiono raccattate sulla bocca del volgo, annoda, da ultimo, il ritmo dei periodi sparsi, raccoglie il brivido della commozione, che affiorava per mille vene, conchiude. Ecco una di queste proposizioni di sbocco, spoglia di immagini, senza scaltrezze di numeri, senza costruzione brillante, un po’ professorale, anzi, nella scelta di certi epiteti e di certe movenze. «Spesso la dispietata morte la incontriamo per le vie del mondo, dove i funerali arrestano i commerci della vita, e v’è chi si impazienta e la maledice solo perché ella, la pallida, ritarda la vita, e non pensa che ella è in viaggio anche per noi.» Che cosa vi dice? La frase, l’idea del Panzini, fuori del contesto, diventano convenzionali, si scolorano. Nella sua pagina, hanno un valore di risonanza incalcolabile, come il tema sinfonico, che non vige se non fra gli echi della sinfonia.
Questa inalienabilità, questa serratezza, vi fa un po’ capire perché l’arte del Panzini, a malgrado della modestia del suo autore, ed anche in questo ultimo aspetto, spesso, perfetto, sia un’arte di aristocrazia, un’arte dura, schiva. E vi fa capire perché sia stato necessario che un fremito nostalgico della classicità vera, della classicità del Leopardi e del Manzoni, abbia le percorso le anime italiane più attente, prima che esse siano decise ad accorgersi di questo poeta, prima che sia stato lecito sperare che, finalmente il pubblico avrebbe accondisceso a compensare con un po’ di amore la solitudine vergognosa nella quale, per tanti anni, l’ha reietto.
Son sette novelle, raccolte sotto il titolo ironico al quale due almeno sfuggono.
“Fiabe delle virtù”, si son Le chicche di Noretta; la storia di un’orfana, impiegata postale in un ufficio di sesta classe. Noretta va a rimettersi di salute, in villeggiatura, presso una zia, e il figlio di questa zia, uno scettico malato di incontentabilità e un poco anche di neurastenia, finisce per innamorarsene, e soffre da cane quando la sa fidanzata a un ex sergente, e, anzi, in qualità di parente più prossimo, deve occuparsi di certe faccende che concernono quel matrimonio. E sono “fiabe della virtù”: L’ultima avventura di Sancio Panza, Le avventure di un paterfamilias, La repubblica delle lettere: narrazioni delle illusioni di un giovine commissario regio che si reca per la prima volta in missione in un paesello, coll’intenzione di far grandi cose, mentre presto capisce che la meglio è di non farne punte; malinconie intorno la ristrettezza decente della famiglia di un notaio carico di fligliuoli; cronistorie delle vicende di un vecchio bibliotecario che, dall’osservazione di certi tipi singolari, i quali frequentano la solitudine polverosa della sua biblioteca provinciale, ha saputo dedurre tanta poesia da comporre un grosso libro di novelle: Casi della vita, le quali piacciono assai poco, è detto, ai critici del tempo, ma sembran fatte, in tutto e per tutto, per piacere a noi.
Perché i Casi della vita son quasi un mito della genesi della poesia del Panzini: poesia si è detto, che risente tutta di un’origine umile, ed anzi se ne abbella come di una indicibile pallida aureola che le fa risalto, a quel modo che la trista atmosfera di un vicolo cittadino conferisce, non si sa in che modo, alla ciocca di rose che si reclina da un muro grommoso, una bellezza patetica mille volte più intensa dei roseti felici, nei giardini dalle conche di marmo eletto. Ma se, in queste fiabe, nelle quali il racconto e l’immagine, lasciati in asso, sembran talvolta infilare nella discussione e nel teorema, si trovano mosse e pagine, animate di spunti comici, rigate di razzi critici, nelle quali, come spesso nei libri precedenti, il Panzini, più che di novelliere ci fa l’effetto di un essayist fantastico, o di un lirico alla Heine tradotto in prosa di odore trecentesco da un bello scrittore italiano, la quinta novella: I diritti dei vecchi e dei giovani, rompe già la linea, e tende tutta intorno a un tipo meraviglioso di vecchia cieca e demente, con un procedimento di scorcio, che ricorda le pagine dell’”Attrice”, nella Lanterna di Diogene. Il motivo lirico è ancora sfiorato con mano vuol parere sbandata. Ma vibra con impeto stupendo nelle novelle restanti, dove non vi capita più d’esser disturbati, nella vostra emozione, dal tintinnare gracile del sistro dell’ironia.
Ivi, sentite semplicemente d’essere nell’atmosfera di due capolavori, e due capolavori così saldi e così sconvolgenti, che se, in presenza di essi, il critico può ancora un momento pensare a se medesimo, è per sentirsi felice di aver tempestato e vituperato, per quanto era nelle sue forze, tanta produzione contemporanea, sicchè ora, almeno, può portar loro come offerta di gratitudine, quel po’ di amore consentito alla sua pedante e velenosa, e che egli non hai imprestato per balocco a nessuno.
Che sono questi due capolavori? Uno è la storia di Pierino che, dal collegio, dove a furia di sgobbo riesce a mantenersi a retta gratuita per non sforzare il bilancio familiare, a luglio si mette in viaggio per tornarsene a casa sua, dapprima non ci trova nessuno, ma, dopo una lunga attesa crepuscolare, passata sfogliando un vecchio libro: una Bibbia, donde la voce dell’infinito per la prima volta gli parla, sente nelle stanze lontane tornare, litigandosi con insulti atroci, il padre giocatore e la mamma baldracca. E questa è la novella: Il regno venga. L’altra: Il padre e il figlio, narra di un facoltoso bovaro romagnolo, vedovo, con un figliolo solo, tutto dato agli studi e a scriver libri che nessuno compera né legge. Il bovaro non capisce il figlio, e, nonostante l’ami, lo martirizza rinfacciandogli continuamente la sua nullità davanti alla vita. Ma quando il figlio gli muore, ne sente a un tratto la grandezza, gli fa costruire un mausoleo, e passa gli anni che gli restano in una superstiziosa adorazione della sua memoria, nel culto delle sue cose, finché, morto anche lui, non vegliano sull’eroe, nella solitudine di Romagna, che le pietre del monumento e un vecchio cipresso ….
Storie di “umiliati e offesi” anche queste, insomma, ma meravigliose nella loro squallente semplicità, e delle quali il resoconto poco o nulla può dirvi. Capolavori così rapidi che non potete nemmeno tentar di fissarne l’impressione di grandezza con l’evocazione di immagini solenni. Vi sfuggono come una rivelazione stessa della vita, che alza il velo sul proprio volto, un istante, davanti a voi e quando vi riavete dallo stupore, e già lontana. Tutto vi è povero, desolato. Ma corso da un brivido di quella commozione che vibra più poderosa negli attriti della vita più conculcata.
Gli spiriti che sognano e preparano l’arte di domani possono salutare ormai Alfredo Panzini come un maestro; come forse il nostro scrittore più moderno. Debbon certamente guardare a lui, onde imparare, almeno, con quanto ardore contenuto, con quanto silenzio, con quante paziente eroica ferocia, occorra prepararsi.
Abbiamo voluto rammentare, poc’anzi, davanti a questi suoi due capolavori, i poli fra i quali si è aggirata la sua opera precedente. Ed è stato per far meglio capire che come egli, ormai, sia uscito dalla incertezza, dalla intima sfiducia che quasi tutta questa opera testimonia. Ha trovato, finalmente, una poesia schietta. Ha aperto una vena sorgiva, che si è versata con impeto esatto nei canali da lungo preparati.
È quella poesia che aspettava l’anima nostra reclinata e assetata, dopo tanta enfasi, dopo tanto stridore di colori veementi. È la poesia delle penombre austere, dove essa potrà ridiventar pienamente classica e vera. A voler intendere tutto il valore di questa poesia bisogna rammentare che i padri non hanno sdegnato concedere a questo umile loro purissimo figlio, affinché egli potesse cantarla, la loro eterna voce d’oro.”
Nella decina circa di contribuiti successivi, i toni non si avvicineranno sempre all’apologia come in questa circostanza, perché Cecchi non mancherà di far notare la deriva manieristica dell’ultimo Panzini. Comunque l’ammirazione rimarrà sempre, e, in occasione del decimo anniversario della morte, ricordando Il bacio di Lesbia, scriverà:
“Fu questo forse il più bel dono che alla fedeltà di Panzini fecero i classici: Catullo, appunto; Lucrezio nel libro delle ossessioni amorose, e Virgilio nella morte di Dido; a parte quello che contava di più, e che, non occorre dirlo, era quello ch’egli ci metteva di suo. Il sussurro ironico percorre il racconto, sottilmente lo interpunge, sordamente lo tormenta, con un sinistro frusciare come di elitre, che accompagni un formicolio di presenze larvali. E di tanto in tanto scoppiano quegli altissimi, vertiginosi gridi della passione, che ci lasciano senza fiato, come al barbaglio improvviso d’una viva polla di sangue. Alla fine del Bacio, l’apparizione di Lesbia in casa di Catullo sul lago (quello scricchiolio lieve del sandalo) è fra le pagine più misteriose e folgoranti della nostra moderna letteratura. Onore, grandissimo onore alla memoria del poeta che creò pagine come codesta.”
Benedetto Croce
Quanto Panzini temesse l’autorità morale ed intellettuale del “tremendissimo senatore”, Benedetto Croce (1866-1952), lo si comprende già dalla seconda lettera, spedita nell’ottobre del 1910, del carteggio con Renato Serra, dove apostrofa il filosofo napoletano come “terrore dei vivi e dei morti”.
Gli episodi degli anni successivi dimostreranno che questo timore fosse ben fondato.
La prima occasione di risentimento da parte di Croce è provocata da un articolo del febbraio del 1915 su “Illustrazione Italiana”, dove, dissertando sull’eventualità dell’intervento dell’Italia nella guerra mondiale, Panzini attribuisce al filosofo una posizione neutralista rigida e distaccata, come si evince da questa frase: “l’Italia bizantina senza guerra, rimarrà bizantina con la guerra”.
Croce, indignato, replicò personalmente, scrivendo immediatamente a Panzini una lettera in cui negava di aver mai, non solo scritto, ma addirittura pensato una simile affermazione; la risposta di Panzini è un tentativo di difendersi sostenendo di aver frainteso un giudizio di Croce sulla buona sorte dell’Italia nel Risorgimento, che, a causa di contingenze della politica europea particolarmente favorevoli in quel dato periodo, avrebbe raccolto, con l’unità, più di quanto non avesse prima seminato.
A questa impacciata arringa Croce, riscontrando di aver colto in fallo Panzini, per buon animo decide di non replicare. Passano gli anni, subentra il fascismo e, mentre Panzini firma il “Manifesto degli intellettuali fascisti” del 1925 promosso da Gentile, per poi divenire quattro anni dopo accademico d’Italia, Croce, con la redazione del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, diventa uno dei più fermi e autorevoli oppositori del partito di regime.
Per tutti questi motivi, il filosofo napoletano rimane esterrefatto quando legge la porzione incriminata del suddetto articolo riproposta dallo scrittore nel volume Diario sentimentale di guerra. Croce perde davvero le staffe a causa di questa sgradita e offensiva “lezione di reverenza verso la patria”, rimprovero ai suoi occhi ancor più intollerabile perché fatto da un firmatario del “Manifesto degli intellettuali fascisti”, a lui che si stava opponendo, con le proprie armi, a un regime che considerava nefasto per la nazione. Perciò, Croce, dichiarando orgogliosamente la sua fedeltà all’Italia, accusa Panzini di essere un misero ”brillante da teatro”.
Lo scontro tra i due si era arricchito nel frattempo di un altro capitolo quando nel 1925 Croce si era indispettito, sfogliando il Dizionario moderno di Panzini, nel leggere questa definizione della parola “allotria”:
«Allotria: voce greca, cosa estranea, usata dai dotti germani e da Benedetto Croce per esprimere gli elementi dottrinali, storici ecc. alieni dall’apertura, cioè meramente intuitiva (?).»
Croce si infuria e, sprezzante, giudica l’esegesi del vocabolo, “aliena da ogni intelligenza”, condannando la consuetudine di Panzini di irridere tutto ciò che le sue deboli facoltà intellettuali non riescono a comprendere.
Croce muove altre accuse alla metodologia impiegata da Panzini nella redazione del vocabolario, che, per la vastità delle loro implicazioni, possono essere applicate anche alla sua attività di narratore.
Croce asserisce di non sopportare l’umorismo di Panzini, manifestato nel Dizionario dalla tendenza ad infarcire la spiegazione specificamente scientifica del lemma con commenti e divagazioni di carattere personale. Nelle glosse prende forma la vocazione dello scrittore ad assumere “l’aria dell’ingenuo meravigliato”, convinto, dietro lo schermo di un’apparente banalità, di aver carpito “il fondo della realtà”, fatalmente celato al resto degli uomini. Il risultato di questo procedimento è, lungi dalle mirabili intenzioni dell’autore, un’ironia “scipita e insopportabile”, degna degli “umoristi di professione”, i quali sono persuasi d’essere spiritosi, e quindi si ritengono all’altezza di scherzare e di drammatizzare su qualsiasi cosa, mentre farebbero meglio a ridere e a piangere solo della loro “vacuità e demenza”.
Croce in una successiva recensione all’ottava edizione del Dizionario, precisa come la puntuale correzione della nota sul termine “allotria” sia controbilanciata in negativo dall’inserimento, con ancora un riferimento allo stesso Croce, del lemma “estetica”; un’altra occasione, commenta caustico il filosofo, dove Panzini si impegna “con fervido zelo a dare prova delle lacune della sua cultura”.
Croce torna a parlare di Panzini, per l’ultima volta, quando nove anni dopo la morte dello scrittore, s’imbatte, leggendo la raccolta postuma di scritti panziniani Per amore di Biancofiore, nella già riportata missiva a Serra, in cui il filosofo veniva evocato come “terrore dei vivi e dei morti”.
Prendendo spunto da ciò, Croce traccia un breve consuntivo del rapporto, anche se solo in absentia, con Panzini.
Innanzi tutto, ricorda un incontro con il cognato dello scrittore che gli aveva raccontato la paura di questi ogni volta che sfogliava un fascicolo della “Critica”, temendo di trovarvi il suo nome schernito.
Croce riporta poi un episodio che sancisce la riappacificazione tra loro: infatti, all’indomani della pubblicazione del saggio critico, di cui ci accingiamo a parlare, nella cui stesura, come Croce puntualizza ripetutamente e un po’ spocchiosamente, non si fece in alcun modo influenzare dalle passate polemiche personali, Panzini, lusingato dalle lodi ricevute, fece pervenire allo studioso una copia con dedica de Il bacio di Lesbia, accolta da questo con benevolenza e soddisfazione per l’equivoco finalmente chiarito.
Dopo aver dato spazio a queste piccole schermaglie, non si può evitare di parlare dell’effettivo contributo di Croce che, sebbene non costituisca una stroncatura senza appello, segna, data l’autorità di Croce, un deciso momento rottura nella storia della fortuna critica panziniana.
Croce condanna la conversione di Panzini da poeta e artista genuino degli affetti domestici a scrittore per il grosso pubblico, che lo ha inevitabilmente spinto a costruirsi uno stile ripetitivo e artificioso.
Croce sostiene che Panzini, per andare incontro alle esigenze della massa, incolta, dei lettori, si sia appiccicato in volto una “maschera” umorista, attraverso cui filtra senza posa le vicende dei suoi personaggi, con il risultato di castigare la sua vena poetica in una penosa scimmiottatura di se stesso.
“Perché mai taluni scrittori, che sanno esprimere in modo fine e delicato i loro sentimenti, che sanno ritrarre con vivezza figure e scenette, invece di compiere e comporre i loro accenni e bozzetti nella forma di liriche, di romanzi, di drammi dal serio accento, le spargono in una conversazione di tono scettico, ironico, burlesco, in cui sembra che vengano fuori contro proposito o contro voglia, per distrazione, per accidente, come se avessero preso la mano al prosaico e barzellettante conversatore? Perché mai gettano le poetiche loro fantasie in quell’onda discorsiva, sulla quale battono le alucce tentando di librarsi, e spesso vi restano immollate e impacciate? È stato detto che ciò proviene da scontrosità e da pudore di nascondere il proprio cuore, di non lasciarsi sorprendere nel desiderio e nell’affanno. Male, in ogni caso, perché la poesia ammette bensì e comanda l’alta verecondia, ma non punto ritrosie, smorfiette e falsi pudori, che danno a vedere l’animo non di lei unicamente occupato, frastornato dall’immagine di spettatori innanzi ai quali si pensa di dover prendere certi atteggiamenti per farsi accettare o per far bella figura agli occhi loro e degli altri simili a loro. Sennonché, s’io non erro la ragione vera di quella maniera letteraria è da ricercare, di solito, più in fondo, in una certa coscienza d’insufficienza, di scarsa forza, non durevole alla tensione che l’arte, la nuda arte, richiede; e quegli scrittori mi somigliano nuotatori che non osano affidarsi in tutto al libero mare, e nuotano qualche tratto e poi tornano a prender piede sull’arena.
Tale si direbbe che sia il Panzini, che non altrimenti riesce a formulare e a comunicare i suoi moti d’animo e le sue immagini poetiche (perché senza dubbio, egli ha del poeta), se non attraverso una maschera che si è posta sul volto, la maschera di colui che non comprende quest’imbroglio che è la vita, e perché gli uomini siano come sono e le donne anche, e, in quanto dichiara di non comprendere, si stima superiore a che crede di comprendere, e perciò può segnare gli angoli della sua bocca con la piega di un perpetuo sorriso di spregio e d’irrisione. Può darsi che la maschera sia stata in qualche momento o in un primo momento un sentimento spontaneo; ma maschera poi è diventata, che tanto forte gli aderisce al volto da non potersela più staccare, perché, senza di essa, forse non gli riuscirebbe più di parlare e di dire le belle cose che pur dice. Si sopporta dunque, dunque, quella per queste, ma solo in queste l’animo si sofferma e si riconcilia con lui.
Si sopporta, per esempio, che, nella Lanterna di Diogene, ripigli (come del resto, in altri suoi volumi) lo schema e il frusto espediente dei Reisebilder, e ci allieti o si allieti di mediocri spiritosaggini, e ci partecipi non profondi pensamenti, e c’intrattenga così di frequente delle sue merende e dei suoi desinari in mezzo ai campi e nelle osterie (delle delizie del mangiare parla volentieri in molti suoi libri, come appunto certe maschere ghiottone della commedia dell’arte).
Si sopporta la lunga cicalata, che toglie a pretesto Santippe, a pieno ripagati dalla rivelazione a cui si assiste dell’umana realtà di quella che fu la proverbiale moglie di Socrate, colei che non intendeva la sfera ideale in cui respirava e si muoveva il marito, che lo considerava demente, lo copriva di rimproveri ed invettive, lo tormentava e perseguitava quasi nemica implacabile.
Si sopporta che egli mantenga quella sua maniera d’intonare il racconto, e persino che scriva in fronte al suo libro il brutto titolo schernitore: La pulcella senza pulcellaggio; quando, in quel racconto, vive una figura così gentile come Berenice, la ragazza bolognese, dolce, buona, di delicato sentire, che giovanilmente non vede niente di più bello al mondo che la dedizione per amore, e ama con tutta se stessa; rapita sempre nel ricordo e nell’ammirazione per il primo amante, bizzarro, mezzo matto, che brucia con generosa allegria in una fiammata la propria esistenza; affettuosa e tenera, a tratti materna, con l’altro che poi si è preso, a lei di tanto inferiore moralmente quanto le è superiore per senno pratico e capacità di farsi strada nel mondo: l’amorosa Berenice, alla quale non rimane che lasciare un mondo che non è fatto solo di amore, di amor giovanile di ogni altra cosa oblioso.
L’amore, l’amore nel suo fascino sensuale, l’amore, diciamo pure, nella sua morbidezza e lascivia, ricorre di continuo, insistente, nella sua visione del mondo. Anche quando sogna l’idillio della vita campestre, lo vede riapparire di lontano, rispuntare da un angolo, ripenetrare, irresistibile, devastatore, a sconvolgere tutto l’edifizietto leggiadro e tranquillo che era stato costruito. E si direbbe che queste repressa ma pungente bramosia e paura insieme della muliebrità, dell’amore che è insieme ebbrezza e tristezza, ragion di vita e perdizione, lo renda molle e sensibile ad altre forme di affetti, ad altre gioie e tristezze della povera vita umana, che la morte circonda del suo duro cerchio infrangibile.
[…] più o meno interrotto che sia, o fastidiosamente accompagnato dalla musica sarcastica che si è detta, è di questa sorta il Panzini che parla a chi gioisce alla vista della «giovinetta austera e immortale»; ed è il Panzini che, credo, resterà. Ma ce ne un altro il quale occupa, purtroppo, grande spazio accanto al primo, ed esercita prepotenza: il Panzini che si prende sul serio nel suo ghigno sarcastico, e si arroga di fare il pensatore, il critico, il sociologo, il moralista, il satirico, e si dà a descrivere la società contemporanea, e vuol giudicarne l’andamento e gli aspetti e biasima e ammonisce, e osa tentare persino i libri di storia; questo Panzini, che getta sull’altro una luce sfavorevole. Anche coloro, che assai lo ammirano, hanno preso a deplorare la sua decadenza nell’ultimo ventennio, il suo lavorare in modo meccanico, la sua crescente frivolezza e vacuità; ma, piuttosto che di una distinzione di epoche, qui si tratta, a me pare, di una duplicità che è stata sempre in lui, con varia proporzione, e di uno squilibrio accresciuto negli ultimi tempi dall’esser egli passato dalla proba e modesta vita dell’artista al mestiere del giornalista e facitore di libri per il «gran pubblico», per i molti lettori.
Il Panzini non né mente né cultura di critico e di storico: la sua è esclusivamente umanistica, di «retorique», come dicono i francesi, rivolta alle parole e alle forme dello scrivere bene, donde anche l’interessamento da cui sono nati i suoi lavori lessicali e grammaticali. Impaziente, se non consapevole, del suo limite mentale, volentieri si sfoga a irridere le cose che ben dovrebbe sapere di non conoscere e di non poter mai sottomettere a se, e il mondo di pensiero dal quale è escluso: la quale irrisione non è certamente il mezzo conducente a correggere, e piuttosto serva a far risaltare, l’inferiorità che egli avverte in se. È nota la prova infelice che fece quando volle comporre una vita di Camillo di Cavour: i suoi libri sulla storia d’Italia sono privi affatto di acume storico, sebbene non vi manchi qualche tocco felice, bozzettistica ed impressionistico; perfino quando scrive di letteratura e di poesia, come gli è accaduto per il Boiardo, che a ragione ammira e procura di render caro ai lettori italiani, non c’è caso che riesca a porre e risolvere un problema critico, ma si effonde nel dire il suo diletto in quella lettura, e nell’intessere le sue fantasie sui personaggi e le avventure dell’Orlando innamorato. Da giovane, aveva scritto un libretto, che rimane la sua prosa meglio ragionata, sulla conversione del Carducci da repubblicano a monarchico; ma già in quello dava a vedere a l’animo suo disorientato e scettico e pessimistico, incapace d’intendere quel che la nuova Italia politicamente, economicamente, culturalmente operava e lavorava. Il disorientamento si fece maggiore in mezzo agli avvenimenti italiani ed europei della guerra e delle susseguenti rivoluzioni, reazioni ed agitazioni. Chi ha lodato il suo Diario della guerra e gli altri quadri che ha dato dell’Italia contemporanea come la più fedele immagine da trasmettere ai posteri di ciò che l’Italia ha sentito e pensato in quegli anni, ha lodato ciò che si può lodare in ogni cronaca che annoti i fatti del giorno, e le voci e i commenti che suscitano nel pubblico; giacché, oltre la cronaca e le idee e i sentimenti comuni e perfino volgari, il Panzini non sa andare.
Scrittore satirico? Ma la satira vuole un sostegno in un sistema di idee nelle quali si ha fede, in un ideale che si riverisce nel proprio animo: la satira si chiama Voltaire. Qual è l’ideale del Panzini, del Panzini che si vanta scettico e pessimista, del Panzini che non accoglie nel suo petto religione di sorta alcuna, che non crede nella mente umana, creatrice e autrice di verità? Non ha neppure, veramente, l’ideale dell’assolutismo, della regola dall’alto, che suppone anch’essa una fede, la fede nel trascendente: quel che viene scrivendo a questo proposito ha tutta l’aria di una compiacente adesione e adulazione alla forza che è prevalsa. A scrutare le sue sentenze, i suoi giudizi contradditori, i suoi sentimenti contrastanti, temo che non ci si troverebbe altro che una grande paura del mondo che si muove e del turbamento che da questo moto sia per venire alla propria tranquillità e al proprio comodo: il che non sembra che possa chiamarsi un ideale.
La satira, dunque, la satira di buona lega, gli è negata, e non gli rimane se non di piacevoleggiare e cercar di provocare il riso nel volgo dei lettori, dicendo le sciocchezze che a costoro gradiscono, prendendo le arie che a costoro sembrano argute e intelligenti. Spettacolo che è penoso a chi pure pregia in lui il poeta e l’artista, e lo ama in questi suoi momenti buoni, e vorrebbe che si lasciasse amare e stimare nel rimanente dell’opera sua.”
Piero Gobetti
Gli interventi di Piero Gobetti (1901-1926) su Panzini sebbene occasionali e sporadici, sono molto interessanti, perché travalicano la semplice valutazione artistica.
Gobetti, infatti, mentre si mostra scettico riguardo la prolificità di Panzini, coglie l’opportunità per inveire pesantemente contro l’editore Treves, colpevole di anteporre il profitto alla qualità e al rigore filologico delle pubblicazioni.
Gobetti percepisce prima di altri le manifestazioni più clamorose di questo fenomeno, i pericoli connessi all’assorbimento della letteratura alle leggi del mercato.
Panzini e Treves, insieme alla pigra e prezzolata compiacenza dei critici, fanno parte, secondo Gobetti, di quella cerchia intellettuale ed editoriale responsabile del decadimento morale e civile della letteratura italiana. Ma ci sarebbe da chiedersi quanto questo giudizio tagli le gambe a gran parte dei critici e del “mercato librario” dai tempi di Panzini ai giorni nostri. Forse la stragrande maggioranza.
“Siamo giunti alla forma più antipatica e ormai predominante della recensione o almeno ispirata dall’autore e dall’editore del libro. È la recensione che vuol dire e che non dice mai niente. Leggetene una decina e ne le avete lette tutte. E si capisce. La rivista impone al redattore di parlare di quei tanti libri. È il cottimo del lavoro intellettuale. […] E bisogna parlar bene perché chi fa la recensione è amico del tal autore oppure, romanziere anche lui a tempo perso, s’aspetta di vedersi lodata per contrappeso la sua robaccia.
[…] Un libro di Panzini ha sempre le tracce del suo “vivace ingegno”, è “poesia”, “equilibrio spirituale” e tante altre cose così; per evitare la taccia di adulatore gli si può dire tutt’al più timidamente che lui ha abusato della sua abilità tecnica.
[…] La magnifica novità e l’ardita ribellione è che in salotto e in sede tipografica dei fratelli Treves è bandita alfine la filosofia dello spirito. Il grande passo è compiuto. Qui occorre esser recisi: sono rivoluzionari anche i borghesi. O che ci viene a dire questa filosofia idealistica con sacerdoti massimi Croce e Gentile, d’autocoscienza e d’intima responsabilità e d’universalità dello spirito e di razionalità? Resti un tal linguaggio ai teutoni. «Noi belli spiriti latini – ragionano – amiamo la filosofia di Panzini. Mentre tu ti tormenti in una critica dei valori noi dolcemente posiamo lo sguardo in pace sulle rilegature in pergamena che Treves ci ha fornito e discutiamo con giusta misura la qualità degli ori che l’editore ha apprestato».
Fuor di scherzo e men fiorito questi sono fatti innegabili. Treves è il rappresentante dell’incultura nostra. L’editore deve essere un iniziatore di cultura, un organizzatore di lavoro spirituale e Treves è solo un tipografo. Gli manca ogni carattere, ogni fuoco interiore, ogni anima, ogni originalità. In un editore non possiamo ammettere l’eclettismo. E invece Treves ha la mentalità del gran pubblico. Questo gli rimproveriamo. S’accontenti di stare nel gran pubblico: non accetti ufficio di tanto peso qual è quello dell’editore. Dinanzi a un progetto editoriale quest’uomo , o questa società, questo sistema di uomini, vede solo il fatto della vendita. Ciò vede anche e solo il commesso viaggiatore. Ora nell’editore è necessaria e utile questa preoccupazione: ma non può ammettere questa sola; bisogna pura badare al fattore essenziale che è il libro e dal quale dipende anche il risultato-denaro. Ma nel libro l’editore milanese vede la copertina, l’esteriorità, la reclame, e vi si ferma.” Gobetti, però, in altre circostanze esprime anche la sua valutazione critica sul Panzini scrittore, deplorando la sua decisione, causata dal successo di pubblico, di dedicarsi ai temi d’attualità, trascurando il piccolo mondo che aveva mirabilmente raccontato agli inizi. “La decadenza di Panzini comincia con la guerra, ossia appena i libri di Panzini hanno trovato pubblico. Dal 1893 al 1914, in appena ventidue anni, Panzini ha scritto sei libri di poesia: Il libro dei morti, Gli ingenui, Piccole storie del mondo grande, La lanterna di Diogene, Santippe. Dal 1918 al 1925 ne ha stampati dieci.
Prima del 1914 Panzini s’accontentava di essere un professore di scuole medie, curava libri di testo, antologie, traduzioni. Era l’onesto letterato carducciano, geloso del suo piccolo mondo lirico-nostalgico, al quale cercava un’espressione sobria nei momenti felici, nei momenti di necessità poetica. Ora Panzini è diventato un professionista della letteratura, mette su due libri l’anno e sente il dovere di dire la sua sui principali avvenimenti che corrono.
Ebbene i giudizi di Panzini sui fatti del giorno non ci convincono: la sua filosofia non c’interessa. Panzini era un uomo semplice, un uomo che portava il ricordo d’altri tempi e non aveva bisogno di polemizzare coi vivi perché si trovava troppo bene a vivere coi morti: la sua prosa ci portava un sapore d’idillio.
Quando ha cominciato a parlare di bolscevismo, di crisi sociale, di necessità delle tradizioni, Panzini non ha saputo dirci altro che, scusate, sciocchezze. È uscito fuori di tono. Perché Panzini di queste cose non s’intende, ha ostentato uno scetticismo che il pubblico prende per superiorità ed è soltanto ignoranza. Il suo mondo ha perduto quel dolce velo di pudore delle cose antiche; la nostalgia è diventata esibizionismo e ostentazione; troviamo un’aridezza mascherata e gonfia. E Panzini crede d’aver trovato lo stile polemico ed umoristico! Un filosofo romagnolo non si può accettare se non commensale.
In queste Damigelle (Treves, 1926), quando Panzini vuol tornare ai motivi antichi e schietti (per es. Amore d’altri tempi, Noretta ecc.) si vede che la sua vena è inaridita. Troppe parentesi, troppe riflessioni estranee lo turbano: e quando si ammirerebbe l’idillio s’incontrano pagine d’un patetico zuccherato, tenero, senza freschezza.
Perciò ad ogni libro che stamperà Panzini facciamo proposito di non tornare più dal libraio, ma di riprendere dallo scaffale Le fiabe della virtù.”
Antonio Gramsci
La sprezzante stroncatura di Antonio Gramsci (1891 – 1937), considerata la lunga egemonia della cultura marxista in Italia, è il punto di rottura della fortuna panziniana, il suo vero e proprio nadir. Le note sparse, raccolte nei mitici quaderni, in cui Gramsci parla di Panzini si diffondono sul finire degli anni Quaranta.
Gramsci, che coltiva un’idea della letteratura totalmente agli antipodi rispetto agli “ultimi umanisti” cari al Russo, inscrive Panzini, insieme a personalità di primo piano nell’Italia fascista (tra cui Margherita Sarfatti e Curzio Malaparte) nella corrente letteraria, reazionaria e antidemocratica, del “brescianesimo”, movimento che prende il nome dal padre gesuita Antonio Bresciani e che si distingueva per: un paternalismo ipocrita verso le masse, la devozione e la sudditanza verso l’ordine costituito, il terrore per il minimo rivolgimento sociale, la banalizzazione e il riduzionismo di concetti e problemi complessi e articolati, siano essi storici, sociologici, politici o letterari.
Durissima è la critica che Gramsci muove a Panzini per il suo atteggiamento rispetto alle masse lavoratrici.
Concordando con Ferdinando Palazzi, Gramsci leggeva nella ipocrita e pelosa compassione dello scrittore-padrone, la preoccupazione del proprietario “negriero” per la produttività dei suoi schiavi. Questo giudizio, sebbene smentito da alcuni contadini del suo podere intervistati in un reportage di Sergio Zavoli, peserà molto sull’immagine postuma di Panzini, tanto che, in buona parte a causa di questa tara, verrà dimenticato persino nelle sue terre d’origine.
Il massimo dell’acredine Gramsci lo riserva a Il conte di Cavour, definito una “beffa della storia”. La riprovazione verso il dilettantismo, la superficialità, la superstizione e l’assenza di rigorose ricerche che caratterizzano l’opera, è talmente elevata, che Gramsci, per esprimere con puntualità il proprio biasimo, non si fa scrupoli a ricorrere persino al turpiloquio.
“I nipoti di padre Bresciani – Alfredo Panzini: già nella preistoria con qualche brano, per esempi, della Lanterna di Diogene (l’episodio del «livido acciaro» vale un poema di comicità), poi Il padrone sono me, Il mondo è rotondo e quasi tutti i suoi libri dalla guerra in poi. Nella Vita di Cavour è contenuto un accenno proprio al padre Bresciani, veramente strabiliante se non fosse sintomatico. Tutta la letteratura pseudo-storica del Panzini è da riesaminare dal punto di vista del brescianesimo laico”.
“Ferdinando Palazzi, nella sua recensione del libro di Panzini I giorni del sole e del grano osserva come l’atteggiamento del Panzini verso il contadino sia piuttosto quello del negriero che non quello del disinteressato e candido georgico; ma questa osservazione si può estendere ad altri, oltre che al Panzini, che è solo il tipo o la maschera di un’epoca. Ma altre osservazioni che fa il Palazzi sono strettamente legate al Panzini. Scrive il Palazzi (l’Italia che scrive, giugno 1929): «Quando (il Panzini) vi fa l’elogio, a mezza bocca, del frugale pasto consumato sulle zolle, a guardarlo bene vi accorgete che la sua bocca fa le smorfie di disgusto e nell’intimo pensa come mai si possa vivere di cipolle e di brodo nero spartano, quando Dio ha messo sotto la terra il tartufo e in fondo al mare le ostriche. […] “Una volta – egli confesserà – mi è venuto anche da piangere”». Ma uqel pianto non sgorga dai suoi occhi, come da quelli di Leone Tolstoi, per le miserie che sono sotto i suoi occhi, per la bellezza intravista di certi umili atteggiamenti, per la simpatia viva verso gli umili e gli afflitti che pur non mancano tra i coltivatori rudi dei campi. Oh, no! Egli piange perché a sentir ricordati certi dimenticati nomi di masserizie, si ricorda di quando sua madre li chiamava pure così, e si rivede bambino e ripensa alla brevità ineluttabile della vita, alla rapidità della morte ci è sopra. Il Panzini piange insomma perché si fa pena. Piange di se e della morte e non per gli altri. Egli passa accanto all’anima del contadino senza vederla. Vede le apparenze esteriori, ode quel che esce appena dalla sua bocca e si domanda se pel contadino la proprietà non sia per caso sinonimo di rubare. Continua il Palazzi: «Panzini si occupa e si preoccupa della vita campestre come può occuparsene un padrone che vuol essere tranquillo sulle doti lavorative delle bestie da lavoro che possiede, sia di quelle quadrupedi, sia di quelle bipedi e che a veder un campo coltivato, pensa subito se il raccolto sarà quale spera». Panzini negriero insomma”. “La Vita di Cavour del Panzini è stata pubblicata a puntate nell’Italia Letteraria, nei numeri dal 9 giugno al 13 ottobre 1929 ed è stata ristampata (riveduta e corretta? Sarebbe interessante un esame minuzioso, se ne valesse la pena) dall’editore Mondatori. Nell’Italia Letteraria del 30 giugno è pubblicata una lettera inviata dal Panzini al direttore del Resto del Carlino: il Panzini, con stile seccato e intimamente allarmato, si lamenta per un piccolo commento, pubblicato dal giornale bolognese alle prime due puntate del suo scritto che era giudicato «piacevole giocherello» e «cosa leggera». Il Panzini risponde in stile da telegramma: «Nessuna intenzione scrivere una biografia alla maniera romanzesca francese. Mia intenzione scrivere in stile piacevole e drammatico, tutto però documentato (Carteggio Nigra-Cavour)». (Come se la sola documentazione per la vita del Cavour fosse questo carteggio!) Il Panzini cerca poi di difendersi, assai male, dall’aver accennato a una forma di dittatura propria del Cavour, «umana», che ellitticamente poteva sembrare un giudizio critico su altre forme di dittatura: figurarsi la tremarella del Panzini nel procedere per questi «ignes». L’episodio ha un certo significato, perché mostra come molti si siano cominciati ad accorgere che queste scritture pseudo-nazionali e patriottiche del Panzini sono stucchevoli, insincere e mostrano la trama. L’imbecillità e l’inettitudine del Panzini di fronte alla storia sono incommensurabili: il suo scrivere è un puro e infantile gioco di parole, ammantato di una specie di melensa ironia che dovrebbe all’esistenza di chissà mai quali profondità, come quelle che certi contadini esprimono nel loro ingenuo modo di parlare. Bertoldo storico! In realtà è una forma di stenterellismo che si dà l’aria del Machiavelli in maniche di camicia e non in abito curiale. Un’altra puntata contro il Panzini si può leggere nella Nuova Italia di quel torno di tempo: si dice che la Vita di Cavour è scritta come se il Cavour fosse Pinocchio!
Né si può dire che lo stile del Panzini, nelle sue scritture di storia, sia «piacevole e drammatico»: egli è piuttosto farsesco e la storia è rappresentata come una piacevolezza da commesso viaggiatore o da farmacista di provincia: il farmacista è Panzini e i clienti sono altrettanti Panzini che si beano della propria fatua stupidaggine.
Tuttavia la Vita di Cavour ha una sua utilità: è una raccolta stupefacente di luoghi comuni sul Risorgimento e un documento di primo ordine del gesuitismo letterario del Panzini. Esemplificazione: «Uno scrittore inglese ha chiamato la storia dell’unità d’Italia la più romanzesca storia dei tempi moderni». (Il Panzini, oltre a creare luoghi comuni per gli argomenti che tratta, si dà molto daffare per raccogliere tutti i luoghi comuni che sullo stesso argomento sono stati messi in circolazione da altri scrittori, specialmente stranieri, senza accorgersi che, in molti casi, come in questo, è implicito un giudizio diffamatorio del popolo italiano: Panzini deve essersi fatto uno schedario speciale dei luoghi comuni, per condire opportunamente i suoi scritti). «Re Vittorio era nato con la spada e senza paura: due terribili baffi, un gran pizzo. Gli piacevano le belle donne e la musica del cannone. Un gran Re». Oleografia da bettola.
[…] Ciò che poi stupisce molto è che si insista tanto sugli episodi «galanti» della vita di Vittorio Emanuele, come se essi fossero tali da rendere più popolare la figura del re: si narra di alti funzionari e di ufficiali che andavano nelle famiglie di contadini per convincerle a mandare delle ragazze a letto col re per quattrini. A pensarci bene è stupefacente che tali cose siano raccontate credendo di rafforzare l’ammirazione popolare.
«Le donne? Già le donne. Su tale argomento Cavour andava molto d’accordo col suo re, benché anche in questo ci fosse qualche differenza. Re Vittorio era di molta buona bocca come avrebbero potuto attestare la bella Rosina, che fu poi contessa di Mirafiori», e via di questo tono fino a ricordare che i propositi galanti (!) del re alla corte delle Tuglierì (sic) furono così audaci «che tutte le dame ne rimasero amabilmente (!) atterrite. Quel forte, magnifico, re montanaro!» (Il Panzini si riferisce agli aneddoti raccontati dal Paleologue , ma che differenza di tocco. Il Paleologue, pur data la materia scabrosa, mantiene il tono del gentiluomo cortigiano: il Panzini non sa evitare il linguaggio del lenone da trivio, del commerciante in tratta delle bianche). «Cavour era assai più raffinato. Cavallereschi però tutti e due, e oserei (!) dire, romantici(!)». «Massimo D’Azeglio …. da quel gentiluomo delicato che era…..».
[…] «…. la guerra d’Oriente, una cosa piuttosto complicata, che per chiarezza di discorso si omette» (Affermazione impagabile per uno storico: si afferma che Cavour è stato un genio politico ec., ma l’affermazione non diventa mai dimostrazione e rappresentazione concreta. Il significato della partecipazione piemontese alla guerra di Crimea e della capacità politica di Cavour nell’averla voluta, è «omesso» per «chiarezza»). Il profilo di Napoleone III è sguaiatamente triviale: non si cerca di spiegare perché Napoleone abbia collaborato con Cavour.
«Al museo napoleonico in Roma c’è un prezioso pugnale con una lama che può passare il cuore (non è un pugnale dei soliti a quanto pare!». «Può questo pugnale servire di documento? Di pugnali io non ho esperienza (!), ma sentii dire quello essere il pugnale carbonaro che si affidava a chi entrava nella setta tenebrosa ecc.» (Il Panzini deve sempre essere stato ossessionato dai pugnali: ricordare la «livida lama» della Lanterna di Diogene. Forse si è trovato per caso presente a qualche torbido in Romagna e [deve] aver visto qualche paio d’occhi guatarlo biecamente: onde le «livide lame» che passano il cuore).
«E chi volesse vedere come la setta carbonara assumesse l’aspetto di Belzebù, legga il romanzo L’Ebreo di Verona di Antonio Bresciani e si divertirà (sic) un mondo, anche perché, a dispetto di quel che ne dicono i moderni (ma il De Sanctis era contemporaneo del Bresciani), quel padre gesuita fu un potente narratore ».
Tutta questa Vita di Cavour è una beffa della storia. Se le vite romanzate sono la forma attuale della letteratura storica amena tipo Alessandro Dumas, Panzini è il Ponson du Terrail del quadro. Il Panzini vuole così ostentatamente mostrare di «saperla lunga» sull’animo e sulla natura degli uomini, di essere un così furbissimo furbo, un realista così disincantato dalla tenebrosa nequizia dell’uman genere e specialmente dei politici, che, dopo averlo letto, viene voglia rifugiarsi in Condorcet e Bernardin de Saint-Pierre, che almeno non furono così volgarmente filistei. Nessun nesso storico è ricostruito nel fuoco di una personalità: la storia ti diventa una sequela di storielle poco divertenti perché insalivate dal Panzini, senza nesso né di individualità eroiche, né di altre forze sociali; quella del Panzini è veramente una nuova forma di gesuitismo, molto più accentuata di quanto si pensava leggendo la Vita a puntate. Al luogo comune della «nobiltà guerriera e non da anticamera» si possono contrapporre i giudizi che il Panzini volta per volta dà dei singoli generali come il La Marmora e il Della Rocca, spesso con espressioni di scherno trivialmente spiritoso: «Della Rocca è un guerriero. A Custoza, 1866, non brillerà per troppo valore, ma è un ostinato guerriero e perciò tien duro coi bollettini». (È proprio una frase da demagogo. Il Della Rocca non voleva più mandare i bollettini dello Stato Maggiore a Cavour, che ne aveva notato la cattiva compilazione letteraria, alla quale collaborava il re).
Non si comprende proprio cosa il Panzini abbia voluto scrivere con questa Vita di Cavour, perché non si tratta certo di una vita di Cavour né di una biografia dell’uomo Cavour, né di un profilo del politico Cavour. In verità, dal libro del Panzini, il Cavour, uomo e politico, esce piuttosto malconcio e ridotto a proporzioni da Gianduia: la sua figura non ha nessun rilievo concreto, perché a dare un rilievo non bastano certo le giaculatorie che il Panzini continuamente ripete: eroe, superbo, genio ecc. Questi giudizi non essendo giustificati (perciò si tratta di giaculatorie), potrebbero addirittura parere canzonature, se non si comprendesse che la misura che il Panzini adopera per giudicare l’eroismo, la grandezza, il genio ecc. non è altro che la sua personale misura, la genialità, la grandezza, l’eroismo del sig. Panzini Alfredo. Allo stesso modo e per la stessa ragione, il Panzini abbonda nel trovar attivi il dito di Dio, il fato, la provvidenza negli avvenimenti del Risorgimento; si tratta della concezione volgare dello «stellone» condita con parole da tragedia greca e da padre gesuita, ma non perciò meno triviale. In realtà l’insistenza balorda sull’«elemento extra umano» oltre che imbecillità storica, significa diminuire la funzione dello sforzo italiano, che pure non ebbe piccola parte negli avvenimenti. Cosa potrebbe significare che la rivoluzione italiana è stata un evento miracoloso? Che tra il fattore nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che aveva il peso maggiore e creava difficoltà che parevano insormontabili. È questo il caso? Bisognerebbe dirlo e forse la grandezza di Cavour, sarebbe messa ben più in rilievo e la sua funzione personale, il suo «eroismo» apparirebbe ben più da esaltare (a parte ogni altra considerazione). Ma il Panzini vuol dare colpi a molte botti con molti cerchi e non riesce a raccapezzare niente di sensato: né egli sa cosa sia una rivoluzione e quali siano i rivoluzionari: tutti furono grandi, rivoluzionari ecc. come al buio tutti i gatti sono bigi.
Nell’Italia Letteraria del giugno 1929 è pubblicata un’intervista di Antonio Bruers col Panzini: Come e perché Alfredo Panzini ha scritto una «Vita di Cavour». Vi si dice che lo stesso Bruers ha indotto il Panzini a scrivere il libro «in modo che il pubblico potesse avere finalmente un Cavour italiano, dopo averne avuto uno tedesco, uno inglese e uno francese». Nell’intervista il Panzini dice che la sua Vita «non è una monografia nel senso storico-scientifico della parola; è un profilo destinato non ai dotti, agli “specialisti” ma la vasto pubblico» (cioè chincaglieria per negri). Il Panzini è persuaso che nel suo libro ci siano delle parti originali e precisamente il fatto di aver dato importanza all’attentato di Orsini per spiegare l’atteggiamento di Napoleone III; secondo il Panzini Napoleone III sarebbe stato inscritto da giovane alla Carboneria, «la quale vincolò con impegno d’onore (!) il futuro sovrano della Francia»; Orsini, mandatario della Carboneria (che non esisteva più da un bel pezzo) avrebbe ricordato a Napoleone il suo impegno e quindi ecc. (proprio un romanzo alla Ponson du Terrail; Orsini, se mai vi appartenne, doveva aver dimenticato, al tempo dell’attentato, da un bel pezzo, la Carboneria; le sue repressioni del ’48 nelle Marche furono proprie dirette contro i vecchi carbonari, e ancora, l’Orsini, dopo aver superato, come gli altri rivoluzionari, la Carboneria nella «Giovane Italia» e nel mazzinismo, era già stato in rotta con Mazzini). Le ragioni dell’atteggiamento personale di Napoleone contro Orsini (che in ogni modo fu ghigliottinato) si spiegano forse banalmente con la paura del complice sfuggito e che poteva ritentare la prova; anche la grande serietà dell’Orsini che non era un qualunque scalmanato, dovette imporsi e dimostrare che l’odio dei rivoluzionari italiani per Napoleone non era una bazzecola: occorreva far dimenticare la caduta della Repubblica Romana e cercare di distruggere l’opinione diffusa che Napoleone fosse il maggior nemico dell’unità d’Italia. Il Panzini poi dimentica (per «chiarezza») che c’era stata la guerra di Crimea e l’orientamento generale di Napoleone pro-italiano (che però, essendo conservatore, non doveva essere gradito ai rivoluzionari); tanto che l’attentato sembrò spezzare la trama già ordita. Tutta l’ipotesi del Panzini si basa sull’aver visto il famoso pugnale che passava il cuore e sull’ipotesi che fosse un oggetto carbonaro: un romanzo alla Ponson e niente altro.”
Curzio Malaparte
Nel celebre Italia barbara di Curzio Malaparte (1898 – 1957), c’è spazio, una decina di pagine circa, anche per Alfredo Panzini. Non poteva essere altrimenti essendo la sua opera “quasi la maschera della crisi o trasformazione (o commedia) dello spirito nazionale” alle prese con gli sconvolgimenti sociali ed economici del Novecento.
“Questo buon italiano che non sa decidersi a diventare moderno” mette in scena, nella parte del cronista stupito e disorientato, il crollo della tradizione e dei valori, la patria, la cultura (umanistica), “l’altare domestico”, che avevano educato e guidato l’anima degli antenati. Depresso e avvilito, Panzini risponde allo sfascio delle sue credenze tramite l’arma dell’ironia che addolcisce, ma solo in apparenza, il suo scacco esistenziale.
Malaparte legge nel malessere di Panzini il dramma dell’ultima generazione pre-moderna, confusa, immobile e sconsolata.
“E qui potrei provarmi anch’io, per entrare direttamente in materia, a dare una definizione approssimativa dell’uomo Panzini, con la speranza di agevolare a me stesso e agli altri la comprensione della sua maniera letteraria; ma preferisco, per timore di equivoci, e di responsabilità, fermarmi a quella, che di lui ha detto Antonio Baldini, chiamandolo «una specie di Parini che si scandalizza di tutto specialmente perchè bada a tutto». Trascurando il riavvicinamento all’autore del Giorno, che rientra in quel genere di subdoli accostamenti molto cari al Baldini (il quale ha fama, né bene se ne conoscono le ragioni, di arguto umanista), non è chi non veda come in quel suo badare a tutto e in quel suo conseguente scandalizzarsi di tutto sia contenuto il motivo principale, se non unico, dell’humor di Alfredo Panzini. Motivo senza dubbio sommamente drammatico, per chi consideri l’umorismo, come io sono portato a fare, una specie di commedia nella quale l’umorista è attore, e insieme provocatore e responsabile delle innumerevoli e ingarbugliate vicende che non gli danno pace, e che finiscono quasi sempre, dopo averlo fatto meravigliare di tutto, col dargli l’improvviso e tedioso stupore di se stesso.
Ora, quel che fa di Panzini un italiano in sommo grado rappresentativo tra i contemporanei e quasi la maschera della crisi o trasformazione (o commedia) che il nostro comune spirito nazionale oggi attraversa, è appunto questo motivo drammaticissimo dello stupore, il quale assume in lui, attore-tipo, gli aspetti più diversi e significatici. Io non so se Panzini si accorga di ciò ch’egli rappresenta e, più esattamente, della sua qualità di dramatis persona, ma ho ragione di credere che ciò non gli sia ignoto né gli dispiaccia, sebbene egli stesso m’abbia più volte dichiarato di non sentirsi, in presenza del compassionevole spettacolo che i nostri contemporanei stanno dando di se medesimi, del tutto italiano e tanto meno; cioè, in altre parole, di sentirsi più spettatore appartato che attore. Poiché mi sembra che Panzini rappresenti, in modo singolarmente fedele, la parte, comunissima alla maggioranza dei conterranei, del provinciale e del borghese che si meravigliano di tutto, che guardano ogni cosa a bocca aperta, che vanno dietro ai frulli, agli scodinzolamenti, alle illuminazioni, novità e incongruenze della vita moderna, senza capire il perché di tante cose mutate e senza conoscerne il segreto meccanismo, stupiti e insieme dispiacenti di non sentirsi moderni e di serbare ancora nei modi di una certa goffaggine che sa di paese tranquillo, di farmacia e di lume a petrolio.
Si badi ch’io non intendo, attribuendo la parte del provinciale e del borghese, far cosa che a Panzini possa sembrare irriverente: ho un concetto troppo onesto dell’invidiabile qualità borghese e di provinciale per attribuirla, specie nei riguardi di un esempio così decoroso, a titolo di canzonatura.
Poiché questo simpaticissimo italiano che viaggia indaffarato da una cosa all’altra, da un aspetto all’altro, per lui nuovo e sorprendente, di questa turbinosa e spregiudicata modernità oltremontana, tuttora in via d’innescamento sul tronco borraccinoso della nostra pesante e grassoccia sensibilità di nazione demodee; questo buon italiano che sa decidersi a diventare moderno e a dimenticare la grande casa patriarcale, piena d’ombra e di silenzio, la scansia dei vecchi libri, i ritratti dei nonni e l’altarino domestico con gli idoli del Risorgimento, le buone parole lette o ascoltate quando l’Italia era una grande provincia, o l’immutabile cerchio di cielo intorno al paese dei padri, con sòpravi disegnati i soliti cipressi e i pini e le chiesuole inaspettate; questo italiano nato da una razza che oggi sta per morire dopo aver assistito al disfacimento di tutto il mondo e all’invigliacchirsi di una tradizione che non mancava di bei gesti; questo incorreggibile italiano che, vedendo con tristezza i mutamenti e udendo parole nuove e leggiere, senza radici nel suo passato, finisce col meravigliarsi dell’imprevisto e del nuovo e quasi col vergognandosene, e non volendo sentirsi mutato e moderno finisce col non credere più a nulla, nemmeno agli antichi valori; questo buon italiano, dico, qualunque sia il giudizio che i contemporanei danno del suo modo di osservare e di meravigliarsi, cioè della sua arte, è senza dubbio un vero italiano, di quelli che hanno una tradizione e che la sanno difendere, di quelli, insomma, ai la nostra spregiudicata irriverenza di girini, in via di metamorfosi dall’antico al moderno, dovrebbe rispetto e quasi una segreta riconoscenza.
Questo modo di rappresentare l’incertezza e lo smarrimento del comune spirito nazionale, rimasto profondamente provinciale e borghese, quarantottesco, di fronte al nuovo spirito moderno, si manifesta in Panzini congiunto a una specie di umore profetico, che è proprio del moralista e del pedagogo. Il quale umore, se gli ha valso quel certo avvicinamento al Parini, non è però di tal natura da risparmiargli la sorte comune al gran numero d’italiani che egli rappresenta: e cioè un avvilimento inesorabile e progressivo. Le cronache degli ultimi cinquant’anni son piene di esempi appropriati. Poiché l’insoddisfatta curiosità di tutto, alimentata da una segreta preoccupazione didascalica, di cui il Panzini dà prova, non può condurre se non allo stupore fisso del Innocenza, la quale, per usare un termine nostrano men riguardoso di quello russo, ha tra noi voce di imbecillità. Non è chi non veda come io non intenda, con questo, recare offesa a Panzini (e ognuno se ne renderà meglio ragione in seguito) e nemmeno attribuirgli la parte di attore sfortunato preso e travolto nelle vicende dell’ingarbugliata commedia dell’umorismo, e ucciso, all’ultima scena, dal coltello di latta di un feroce suggeritore, quale io non mi sento d’essere. Ho anzi una fiera persuasione, a detta di alcuni forse ingiustificata, che Panzini finirà col prendere in uggia, tanto le raffinatezze estetiche dei parrucchieri in voga quanto i casi pietosi di Misiano, uomo moderno, i rifacimenti storici quanto la volontà umiliatrice del socialismo nostrano e le sue cialtronerie, le cronache italiane dei panni sporchi lavati in casa d’altri quanto ciò che fra noi sa di meschino e di peletto pudico, tutti soggetti, questi, cari al Panzini degli ultimi anni; e che lascerà al gran numero d’italiani, ch’egli ha fin qui rappresentato, la grave cura di meravigliarsi fino al limite del possibile, cioè fino all’imbecillità.Questa mia fiera persuasione è confortata dal fatto, che i segni dell’incipiente torpore appaion già manifesti sugli innumerevoli visi che ci attorniano, i quali, non senza una nostra gioia maligna, mostrano già a meravigliarsi anche di noi. Non credo che il progressivo intorpidimento degli italiani, e son parecchi, sia materia di riso e di soddisfazione a Panzini, che è un italiano di buona razza ed ha serbato in bocca, non ostante le molte orzate bevute in città, l’aspro sapore della, terra romagnola. Quel che gl’impedisce d’esserne contento è l’alto concetto ch’egli ha delle tradizioni e della razza, ma che noi, uomini quasi nuovi, uomini quasi moderni, non abbiamo o mostriamo di non avere. Certo, noi non abbiamo fra i denti sapor di terra, se non quello amaro che ci è rimasto delle buche e dei fossi tremendi delle Venezie; ma il buon sapore. della terra buona, dì quella che sa già di pane, noi non lo conosciamo; e quasi ci sembra, di esserci creati da noi stessi in questi ultimi anni, di non aver razza, di non essere antichi. In questo sentimento, forse, è la ragione della nostra gioia maligna, di fronte all’inesorabile e progressivo intorpidimento delle generazioni che ci hanno visto nascere. Che non soffriamo è naturale ed umano, e risponde forse a una nostra torbida comprensione della falsità, la quale ci ripaga in tal modo di tutto ciò che quelle generazioni hanno mal fatto o non hanno saputo fare in quarant’anni di pietose cronache nazionali.Ma il sentirsi antico, in Panzini, genera tristezza. Ciò lo salva da quell’ultimo stupore al quale il comune spirito è da tempo avviato, e gli darà modo di risentirsi solo, come quando c’era ancora in lui molto del buon contadino romagnolo, che, parlando, sorride per non dover bestemmiare e trova una giustificazione di tutto nel fondo immobile della propria antichissima tristezza.”
Carlo Muscetta
Carlo Muscetta (1912-2004) riprende direttamente il discorso e i toni di Antonio Gramsci. L’astio del Muscetta, che raggiunge punte di vero e proprio livore, si deve al fatto che, nel dibattito critico del secondo dopoguerra, il significato dell’esperienza panziniana comincia a travalicare il semplice valore artistico, per diventare un simbolo dell’universo morale e intellettuale dell’Italia reazionaria e piccolo-borghese, dalle cui aspirazioni e, soprattutto, paure, ebbe origine il fascismo. Un disprezzo oseremmo dire quasi antropologico.
Muscetta non evita di elencare i sintomi più evidenti, e nefasti, di questa particolare forma-mentis: il ripiegamento impaurito nella sfera privata, il soffocante “provincialismo culturale”, la presa di distanza da ogni seria e rigorosa indagine socio-politica e l’amore calligrafico per la bella scrittura.
Descritto uno scenario così drammatico, Muscetta pensa che solo un’opera di Panzini avrà il potere di salvarsi dal trascorrere del tempo, il Dizionario moderno. Non certo, naturalmente, per i meriti conseguiti nel campo della lessicografia, ma perché resterà «un documento di prim’ordine per la storia intellettuale delle cosiddette “persone colte” nell’Italia novecentesca». Un museo degli orrori di quella cultura reazionaria e baciapile che “ha conformato milioni di cervelli della piccola borghesia”.
“Mentre si va commemorando il Panzini nel decennale della morte, ecco venir quattro pagine dei quaderni di Gramsci dove si incide il rugoso e insieme infantile volto reazionario di questo professor d’umorismo: «nipotino di padre Bresciani».
Il giudizio di Gramsci riguarda soprattutto il Panzini biografo di Cavour, ma illumina di passata anche la sua letteratura, la miserrima qualità del suo atteggiamento sentimentale: «Il Panzini insomma piange perché si fa pena. Piange di se e della morte». È un’osservazione acuta che in nessun critico del Panzini ho ritrovato, nemmeno nel Serra, il quale, nonostante l’affetto per il suo lettore, è così ricco di giudizi negativi. Quante cose egli riuscì vedere agli inizi della carriera letteraria di Panzini: i limiti e i pericoli della sua maniera, l’intelligenza mediocre, «la letteratura buona ma non squisita», l’osservazione e la rappresentazione «nitida ma non potente», la arguzia «spontanea ma un poco scarsa», e persino l’incapacità radicale a trattare di cose storiche. Ma Renato Serra, se era per cultura e per altezza di ingegno non provinciale, partecipava degli stessi limiti di classe del Panzini e ne condivideva certo dilettantismo e la morbosa inclinazione crepuscolare, e quel concetto un po’ retorico e formale del classicismo che era il retaggio comune della scuola carducciana. Non aveva il distacco di una moralità nuova, di una nuova concezione della vita, per rifiutare in partenza questo intenerimento su se stesso che del resto era la fioca vena poetica di Panzini; specie nelle pagine più antiche dove «lo scudiero dei classici» aveva una certa grazia nativa e le stesse goffaggini erano sincere, non divenute ancora stucchevoli e calcolate piroette. C’erano nel primo Panzini certe situazioni liriche, di una piccola anima di poeta che cosciente dei propri limiti e pavida di spiccare il volo si era rassegnata alla prosa (una prosa, checché sia stato detto, più vicina a quella del Pascoli, che non a quella di Carducci; o semmai ai toni minori carducciani, magari di certe lettere o di certi passi autobiografici). Una prosa che ogni tanto latineggiava non senza spocchia di ludimagistro, con l’aria di dire: – Non vero mica che ho preso anch’io la mia cotta per Arrigo Heine e l’ho scoperto con cinquant’anni di ritardo: lasciamogli volentieri gli umori progressisti 1830. Se mai il mio maestro è Orazio. Satyra tota nostra est.
Però si dovrebbe andare adagio a collocarlo senz’altro tra i «classici». E m’è dispiaciuto tanto, caro Pancrazi, che anche tu, sempre così misurato, ti sia lasciato andare a una definizione così imprudente. Ad apertura di libro, anche negli scritti più celebri, eccola questa prosetta grinzosa e imbellettata che ci viene incontro dameggiando e sninfeggiando, con falsi rossori e languori, lusinghevole, vanesia, ora interrogativa, ora sospensiva, più spesso esclamativa e pettoruta della più banale sapienza con cento vezzi e sgarbi improvvisi; ma ammirando un paesaggio o facendo l’occhietto, misurando le cose dall’alto in basso o nell’atto di compatirsi, trova sempre il modo di persuadere il lettore su almeno uno di questi tre punti: 1) lacrimate con l’autore sui suoi patemi: però, dite la verità, che stilista! 2) un pizzico di latino vale più di tutta l’arte e la scienza moderna messa insieme. Nihil sub sole novum. 3) i filosofi da Socrate a Marx a Croce farebbero ridere, se non facessero tanta pena. Solo il buon Dio, anche perché quell’essere appetibile che è la Donna e l’ingegnoso prof. Panzini, solo il buon Dio in fondo è un rispettabile personaggio che un umorista clericale non si azzarda mai di prendere in giro.
Nella ricetta di Panzini questi tre ingredienti sono rituali e costituiscono quello che Gramsci chiamava esattamente il «gesuitismo» o il «brescianesimo» di Panzini. Lo possiamo riscontrare con una costanza impressionante dalle opere prime a quelle della vecchiaia. Dopo di che è chiarissimo che egli dovesse simpatizzare più con Monaldo Leopardi che con Cavour (dei quali ha scritto biografie parimenti mediocri e male informate), e che credesse, come è noto, Giovanni Verga una nullità, appetto del padre Bresciani «potente narratore».
Dal Libro dei Morti alla Lanterna di Diogene ai Giorni del sole e del grano, l’odio per le masse, la paura e la repulsione più che estetica per gli operai in sciopero e i contadini affamati di terra gli traboccavano dal cuore profondo, benché il nostro povero letterato amasse professarsi «puro» e «apolitico». E volete conoscere l’ora eletta in cui egli sentiva la sua solitaria vocazione alla poesia? «La domenica, ad ora ben tarda cessano i canti [dei lavoratori] con sollievo delle Muse, ed i grilli riprendono l’impero della notte serena». Con rara delicatezza s’inteneriva, lui, per i nobili pini abbattuti, per il falco prigioniero, per il cuoricino del passerotto, per le ostriche e per i grilli; ma gli uomini che lavorano, puah! E infatti nel Dizionario moderno si piglierà la briga di registrare una parola tutt’altro che nuova e moderna, al solo di buffoneggiare in siffatti termini: «calli (o callosità delle mani) costituiscono per il proletariato l’emblema della sua nobiltà, il documento del suo diritto alla Dittatura». Da questo fiorellino immaginate quale profumo spanda il dizionario panziniana. Il quale seppure tutte le altre opere (ben facile profezia) saranno seppellite nel dimenticatoio, resterà un documento di prim’ordine per la storia intellettuale delle cosiddette «persone colte» nell’Italia novecentesca.
Le opere di Panzini vanno tramontando a poco a poco. Santippe parve giustamente insopportabile al De Robertis quando si provò a rileggerla, a tanti anni di distanza. Il Bacio di Lesbia oggi ci appare già come uno dei tanti travestimenti dei quali si compiace la fantasia accidiosa dell’autore, con quel suo gusto, accentuatosi nella vecchiaia, di pomicione timorato, amante del buon costume e della pruriginosa licenza. Forse le Fiabe della virtù con la loro non dissimulata unzione cattolica rendono appieno, intimamente, l’immagine vera dello scrittore (Emilio Cecchi non si era ingannato). Ma io credo che solo il Dizionario moderno meriti di restare come un autentico tesoretto nel quale si contiene «tutto quello che sapeva» l’italiano medio nella prima metà del secolo XX. Dal 1905 ha avuto una decina di edizioni ed è stato uno dei libri più diffusi fra i nostri intellettuali. Andate a consultarlo con una certa metodicità e vi accorgerete che tutti i luoghi comuni dell’antiliberalismo e dell’antisocialismo sono altrettanto frequenti in ogni pagina come la terminologia oscena, e i neologismi fascisti, di cui Mussolini pare che fosse particolarmente orgoglioso inventore, una volta che si compiacque di citare quest’opera che li aveva registrati con scrupolo accademico.
Provincialismo e sciovinismo culturale, sensualità mal repressa, pedanteria puristica, timor panico delle idee, dall’estetica di Croce alla politica di Lenin, fanno di quest’opera panziniana veramente un classico della cultura reazionaria che con tanto lievito di spiritosaggini ha conformato milioni di cervelli della piccola borghesia italiana. Da questo punto di vista il Panzini è certo da prendere sul serio. Molto più sul serio, che non le secrezioni sentimentali di cui la sua prosa inargentò pagine e pagine: contenta ai comodi che Dio le fece, chioccioletta davvero esemplare dell’umanesimo strapaesano.”
Giovanni Papini
Giovanni Papini (1881-1956) dedica ad Alfredo Panzini uno dei suoi Ritratti italiani. Nel leggere la dichiarazione d’intenti del Papini si comprende che, nel 1915, Panzini, “ornamento di casa Treves”, lo ha superato per fama e prestigio! Importante segnalare in questa sede la polemica antidannunziana di Papini, che lamenta l’abissale differenza di pubblico tra i due scrittori, quando la ”miglior parte”, a suo avviso, sarebbe proprio Panzini.
Questa contrapposizione con D’Annunzio cinquant’anni dopo sarà il perno della riflessione su Panzini di Carlo Bo (alla cui sezione rimandiamo), che con il recul di tempo necessario per un indagine serena e obiettiva, dirà che la differenza nello stile di vita, speculare a quella artistica, tra i due personaggi aveva segnato il costume dell’Italia del primo Novecento.
Papini, che scrive nella fase iniziale del primo conflitto mondiale, giudica il Romanzo sentimentale la migliore opera italiana sulla guerra, in virtù dell’imparzialità con cui Panzini riporta le opinioni e le sensazioni dei suoi connazionali, ancora non toccati in prima persona dall’immane tragedia, senza fare distinzioni d’importanza e di cultura. Il risultato è un caleidoscopio di voci dissonanti dove “la tragedia e la commedia dell’Italia neutrale è sceneggiata su piccolo sipario da un gran talento”.
“Non ho mai visto la faccia di Alfredo Panzini né ho sentito il caldo della sua mano, ma non posso fare a meno di volergli bene. A lui, professore di lettere, autore di vocabolari e ornamento di Casa Treves, importerà poco dell’affetto di uno sbandato guerrigliero qual io mi sono. Critici specialisti di stile e di bello stile, preparatori anatomici di tutte le nervature letterarie e di tutti i pigmenti, che corrono per le carte dei libri hanno spiegato agli italiani perché si deve leggere, ammirare e gustare Panzini. Ma nessuno, ch’io sappia, ha detto perchè gli dobbiamo voler bene. Proprio bene, dico, bene come a un uomo che si conosce -anche se non fosse manifattore di libri.
Perchè Panzini non è soltanto un grande prosatore e un artista che sa ritrovare, senza mostrar di cercarle, tutte le finezze che un’ ironica grazia può mettere a guarnizione di una pagina o di un capitolo ma specialmente un brav’uomo che si manifesta e fa nascer simpatia con le parole stampate come tanti altri simili a lui si esprimono e si fanno amare con le semplici discorserie a tavola o per la strada. Se Panzini fosse solamente scrittore ammirabile, ma è soprattutto uomo attraverso la scrittura e per questo è anche amabile.
Senza aver mai parlato con lui conosco suppergiù le intimità della sua vita. Mi sembra di veder la sua faccia sorridente di serio signore che parla volentieri coi ragazzi lo vedo girellar lungo il mare più curvo pensieri che d’anni. So che il matrimonio non è stato precisamente per lui quel domestico elisio ch’è in generale per tutti; indovino i capricci e i sopraccapi dei figliuoli. Mi raccontano che ha una casa sua a Bellaria e che spesso ha dovuto stridere sotto il frantoio del fisco. Lo immagino mentre chiacchiera col fattorino del tram e col pescatore di triglie e quando gli arriva in casa un amico per il quale mettere a tutti i costi il bel viso nuovo delle feste.
Perché io, e Panzini non lo sa, lo pratico da parecchio tempo: da una ventina d’anni. I critici di giovane autorità che ora lo vanno sballottando sugli scudi della celebrità lo leggono da qualche tempo appena. Io, invece, ho letto, ai tempi della guerra d’Africa, nel ’95 o ’96, un suo libretto sull’evoluzione politica di Giosuè Carducci.
[…] E’ impossibile non vedere Panzini. Non s’apre giornale o rivista o illustrazione che non si ritrovi il suo nome. E tutto quel che si legge di lui porta scritto qualche familiare connotato dell’anima sua malcontenta. La vecchia Nuova Antologia che da tanto tempo non leggo l’ho dovuta riprendere in mano per leggere il suo Viaggio circolare d’un letterato ch’è uscito nei fascicoli di gennaio e febbraio del 1915. nessuno ha parlato di quel libro e parrebbe gran degnazione far la recensione delle puntate d’una rivista. Eppure quelle settanta pagine dell’Antologia son fra le più belle che Panzini abbia scritto e scriverà. Continuazione ideale della Lanterna di Diogene questo Viaggio è ancora più fine e più felice –e pensate che la Lanterna è forse il volume più caro, più panziniana. Ma qui l’arrivo a Vicenza, l’incontro con le donne a Bologna, l’apparizione della nera vecchia presso il Duomo di Pisa, il sogno della mamma, l’apostrofe alla casa di Bellaria, son di quelle pagine che i conoscitori si leggono e rileggono con tanta beatitudine di gusto che la stessa gelosia si vela e si scorda. Quando si pensa che mezzo milione di compatrioti di Panzini legge e ammira le Preghiere dell’Avvento dell’inesorabile D’Annunzio e appena tre o quattrocento avranno letto –e come?- il Viaggio circolare vien fatto di rallegrarsi e inorgoglirsi d’esse tra i pochi, che hanno la miglior parte.
In Panzini c’è stato un momento grave. Nella Lanterna c’era ancora l’uomo che s’affida a qualcosa, che aveva sotto i piedi e gli occhi qualcosa di certo, una soddisfazione, una speranza. Qui è finito ogni cosa. Quello scetticismo savio savio ha lavorato sotto sotto e s’è mangiato quelle po’ di radici rimaste nella terra di tutti. Qui non c’è più fede e neppur la possibilità d’una contentezza passeggera. La donna ha perso l’ultimo sorriso, il migliore dei trucchi; anche la casa fedele, vicino al mare, non ha più fondamento né incanto. È cascato ogni cosa, senza fragore di crisi ma con la naturalezza del pensiero che si rilavora se stesso ogni giorno. Si sente quest’uomo solo in mezzo alla gente che dura fatica a divertirlo senza volere; amaro senza neppure la consolazione d’un desiderio e che pure conserva quella decenza, quella nobiltà, quell’apparente dolcezza briosa dell’artista esperto che non vuol dare agli estranei il diritto di compiangerlo.
Panzini sembra uno spirito semplice: può parer monotono, perfino. Ma leggetelo bene, e con l’attenzione che merita la sciolta eleganza dell’arte sua delicata, e sentirete che ariate di freddo e che infilate di pensieri difficili! È uno spirito di contrappunto che vive sulle variazioni e con pochi temi riesce a lavorare la realtà fino al punto di soffrire e di far soffrire. Paragonatelo al suo maestro, al Carducci delle lavandaie di Desenzano, e sentirete la differenza incredibile tra gli artisti del 1880 e quelli del 1915.
Come tutti gli uomini d’ingegno Panzini scrive quasi sempre delle confessioni per intermezza persona. La Lanterna di Diogene, che resta forse l’opera più compiuta e profonda di tutta la sua bibliografia, è un diario di passeggiate fatte in pochi giorni. Nelle novelle c’è sempre un uomo d’età, somigliante al novellatore, che ha sempre in bocca la dolce saggezza dei disillusi e nel petto ingiacchettato un amore imparziale, che a volte rischia di cascare nella sensiblerie.
Anche di Santippe si potrebbe dire ch’è un’autobiografia se fosse permesso lavorar di fantasia attorno ai segreti del focolare. Ma è certo che il professor romagnolo sente la sua lontana parentela col figliuolo della levatrice ateniese: stesso vizio della sottigliezza, della conversazione, stesso amore dei giovani e di quella ideal soddisfazione che si può chiamar virtù –o altrimenti.
Ma questo libro ultimo di Panzini, questo Romanzo della guerra che non è un romanzo e non ha nulla di guerriero, è ancora più familiarmente panziniana degli altri. È semplicemente il diario di un padre di famiglia che legge i giornali e ama l’Italia e qualche amico –un diario che va dai primi di agosto ai primi di novembre. Niente intreccio, niente letteratura, niente teoria militare o morale. Tutto quanto è sullo stesso piano: la filosofia politica di Missiroli e il discorso della sua bambina; il Corriere della sera e Lacerba; le riflessioni del vetturino e i manifesti dei socialisti; la bicicletta di Serra e la stella bianca sul nero notturno dell’Adriatico. C’è un momento che il Panzini si arrovella per capire quel che succede o per rendersi ragione delle sue antipatie ma di lì a poco torna l’uomo ‘che vede, il poeta, ed eccoti il capannello dei signori sulla cantonata di Cova o il pezzo di pane scuro sulla tovaglia di bucato o la marruca impietrata dall’afa e i concetti, le diplomazie e le razze si nascondono fino a quell’altra pagina. C’è il dolore del buon uom che, pur non avendo mai creduto sul serio alla pace, non vuol credere neppure alla guerra ma c’è posto, nel suo mondo, anche per l’amore, per l’amore più concreto e animale. Un casellante legge le atrocità tedesche a una contadina e a due lattaie delle quali una è rossa e gravida e l’altra ancor giovinetta. « Non capite – spiega il cantoniere alle donne – che i soldati tedeschi hanno mano regia dai loro superiori?» Un piccolo sorriso succede al piccolo terrore. Dice la donna titanica e incinta: « Se fossero trenta o quaranta soltanto, i tedeschi, io me li sbatto. Basterebbe che dopo non mi ammazzassero ». Anche l’altra donna si dichiara capace di tanto. Ma almeno, doPo, dessero un bacio. « Ora, ridono – spiega poi a me la donna – quelle signorine civiline …. ma noi siamo più burrascose. Mi capisce nevvero? La giovinetta nulla dice. Sorride»
Panzini non è soltanto istruito ma colto e come tale sa stare anche col popolo, e lo capisce. C’è in lui quell’umanità che non richiama soltanto il nome d’una certa classe dei collegi antichi. È semplice senza essere sciocco. Può affacciare il capo nelle bolge delle ideologie ma i piedi li tien fermi e piantati nella salda terra d’Italia, la terra nostra che siamo in pochi a sentirla, Panzini mio.
Per questa fortuna d’avere un uomo attento così e tanto leggero anche nelle sue lamentazioni ci tocca oggi il piacere di leggere questo libro che meglio ci fa capire il nostro paese delle tanto prosaiche prose che abbiamo dovuto ingozzare in questi mesi. Panzini non si presenta né come storico, né come filosofo, né come stratega, né come apostolo di guerra o di pace, di germanismo o di latinismo. È una persona perbene, nata in Italia, che ha vissuto nell’ansie di tutti noi e sente nell’anima dubbi che premono, speranze che felicitano, ricordi che ringiovaniscono – e tutte le pietà e le rabbie di quei momenti. Spirito fine e bennato non può mare i tedeschi ma gli dispiace di non poterli amare; si sente ripreso dall’amor per la Francia, ma quasi con un rammarico moralistico, ripensando alla Parigi dei sudiciumi e delle strampalerie; è inquieto per l’Italia ma vede bene qual razza di gente, imbecille o ignorante, siano gli italiani presi ad uno ad uno nei loro spontanei discorsi.
Questi benedetti italiani! Ci vuol tutto il nostro coraggio e la nostra ingenuità, caro Panzini, per amarli come li amiamo. Per sperare in loro, per lavorare per loro. Ci vuole tutta la fede ch’è in fondo alla nostra ironia per sognare ancora la grandezza di questo popolo che non è abbastanza superbo per fare né abbastanza superbo per fare né abbastanza umile per tacere. Di questo popolo che permette tutte le bassezze purché sian pronunziate di tanto in tanto, con accompagnamento di banda, parole vuote e dorate come palle di cupole.
In questo non c’è il Romanzo della Guerra. C’è la tragedia e la commedia dell’Italia neutrale sceneggiata su piccolo palco da un gran talento. Ci sono tutti i problemi che un italiano innamorato dell’Italia e un uomo amante dell’umanità posson proporsi in mezzo a tanto disordine e fracasso; ci sono le parole dei giovani calmi come vecchi che n’abbian viste ben altre; la parole dei giovani che ascendono sulle punte dei rasoi sotto il lume della luce elettrica; c’è l’indifferenza bestiale del popolo rosso che ha imparato a mente i nuovi comandamenti né vuole uscirne perché li trova comodi e facili; e c’è persino il lamento ignobile del fornitore di letteratura ai giornali che si lamenta perché non c’è più posto per le sue novelle nelle terze pagine. C’è poi, presentatore di tutta questa umanità italiana in confortabile, il poeta che alza gli occhi al cielo o li ficca negli occhi dei ragazzi e sa ascoltare con la stessa compunzione la cannonata che vien da Pola e la foglia che sbatte sull’altra foglia alla brezza della prima sera.
Con questo poeta possiamo e vogliamo rivivere anche questi mesi di arida vigilia e amara incertezza. Quel disordine è il nostro disordine. Non facciamo sistemi, noi. Non ci mettiamo in regola con la metafisica e con la storia. Siamo ingenui, Panzini ed io e tutti quelli che possono amar questo libro.
Ch’è un piccolo volume, stampato male, soave d’abbandoni e di semplici immagini, e più doloroso di quelli che raccontano terribili casi.”
Giuseppe Prezzolini
Nel primo dopoguerra, come si è visto, Panzini non solo entra stabilmente nell’élite intellettuale del tempo, ma diviene intimo di parecchi personaggi illustri della nostra cultura.
Proprio per questo, uno dei più prestigiosi, Giuseppe Prezzolini (1882-1982), gli dedica un paragrafo del suo volume Amici, dove si afferma che la popolarità di Panzini è salita al punto da farlo diventare un marchio, un’icona, “il Panzini”.
Prezzolini sottolinea che l’ascesa alla fama non sia stata dovuta ai suoi coetanei, ma a letterati più giovani, come quelli dell’orbita della sua “Voce”, un segno evidente del carattere universale della letteratura di Panzini, universale, capace, per di più, di essere apprezzata e goduta, oltre che dai giovani ed esigenti critici, pure dalle signore borghesi che cercano nella letteratura soltanto un “passatempo sorridente d’un pomeriggio vuoto”.
Nonostante il successo a Panzini abbia arriso tardi, Prezzolini predilige la prima fase, culminata con La lanterna di Diogene, un’opera in cui il “lirismo represso” si esalta nelle sublimi descrizioni naturali conferendo nobiltà e decoro all’ordinarietà del quotidiano.
Pressoché unico tra i critici, Prezzolini giudica funzionale alla resa letteraria il dilettantismo filosofico di Panzini, poiché l’arte “non è fatta d’acciaio”, non le si addice la “nettezza dei pensieri sicuri” quanto “l’indecisione fremente, concupiscente, debole, femminea”.
Ma agli occhi di Prezzolini la più grande virtù di Panzini è l’identità tra opera e vita, per cui alla incessante tensione stilistica ne corrisponde una morale che lo fa tendere verso un’esistenza “seria, serena e alta”.
“Panzini Alfredo, nato il 31 dicembre 1863 a Senigallia si chiama, ora semp1icemente « il Panzini». La fama l’ ha incoronato da qualche anno, condotta la mano dalle riviste alla moda e dai giornali di gran tiratura, e il nome di lui desta echi di simpatia presso due ceti di persone molto differenti nei loro gusti: le signore che leggono e i letterati giovani. Si deve forse a questi ultimi se il Panzini, nell’età in cui generalmente si viene a contrasto coi giovani, è stato vantato e apprezzato come si deve. Non è certo fra i suoi coetanei che ha trovato il critico che lo comprendesse, come Serra, né tra le riviste del suo tempo, quella che lo facesse emergere nel suo intero e profondo valore, come La Voce : e penso che Emilio Treves, editore delle sue principali opere, rimanesse un po’ meravigliato del successo degli ultimi anni. Un giorno che gli facevo l’elogio artistico di questo suo autore, mi rispose col suo risolino: il Panzini si vende poco.
Oggi il Panzini si vende di più. ma non è detto che valga di più di quando tenevo quel discorso al suo editore. È sorta invece una generazione meglio- educata artisticamente, ‘e si è curiosamente incontrata con lui, maturato assai tardi, e l’ ha riconosciuto, per qualche lato, dei suoi e l’ ha accolto con gioia. Perché i giovani sono felici quando posson trovare l’anziano che gioca volentieri con loro.
Vorrei ora tacere io e far un cenno magico: parlassero le nubi che solcano il cielo della valle dove il Tevere è piccolo come un ruscello, l’accento toscano si smorza in quello umbro e si rinvigorisce per quello romagnolo; le fonti che sull’Alpe di Forlì cantano insieme ai campanelli dei birrocci rotolanti per 1’erta; i filari di pioppi gentili nella loro veste di argento e i pini orgogliosi sotto la loro corona di smeraldo, nel dolce piano lombardo che si confonde poi, paludoso, col mare; le vele chiassose di colore e chiacchierine pei simboli, che fanno ressa ai porti-canale dell’Adriatico. Vorrei parlassero i poeti senza età, cui grandezza e tempo trascorso han dato la patina accomunatrice della reverenda antichità, le colonne e i palazzi, i mosaici e i campanili, i ruderi dei luoghi dove la storia, che mai non ferma, sembrò sostare un momento per lasciare una traccia della sua operosità. Direbbero essi, meglio di me, del Panzini, che n’ebbe le confidenze.
Ma questi miracoli li fanno i poeti. Noi critici dobbiamo contentarci di chiarire, di separare, di dividere, di misurare, di sforbiciare. Noi critici non possiamo dire che cos’è un poeta, perché a questo ci pensa così bene lui stesso, ma possiamo soltanto dire che cosa egli non è; e sopratutto che cosa non è di quello che gli altri, e magari il poeta stesso, credono sia.
Un esempio perspicuo di ciò si osserva proprio per il nostro Panzini. Il pubblico, e l’autore stesso, ritengono l’opera sua quella di un umorista (nel senso inglese della parola).
[…] Il Panzini si ritiene un umorista e fa di tutto per esserlo e spesso vi riesce ad esserlo e in quanto vi è riuscito è piaciuto e piace a un genere di gente un po’ colta e educata, che non digerisce la poesia vera e la celia. grossa: ma non sta qui la sua forza. Non per questo Alfredo Panzini nato il 31 gennaio 1863 a Senigallia è per me semplicemente « il Panzini ». Questo Panzini bonario, semplice, scherzoso, osservatore delle debolezze e delle contraddizioni umane, è il Panzini di molte novelle borghesi che hanno alcuni temi obbligati e specialmente quello eterno delle relazioni tra uomo e donna sopratutto nel matrimonio, più, intorno a questo predominante, gli altri del lusso e della leggerezza femminile, del vivere caro, dei cibi affatturati, della brutalità tedesca, del pericolo bolscevico, della campagnola semplicità, ben conosciuti a lettori e direi quasi gli amatori del Panzini, che certo ne conta di ferventi e contenti, anche fra le signore e starei quasi per dire sopratutto fra le signore, appunto come accade di certi scrittori antisemiti che sono letti molto dagli israeliti. È un Panzini minore, com’è stato detto? Non so : di certo non è il Panzini artista. Dell’artista non resta allora in lui che, qui e là, qualche raro sprazzo di luce lirica, che si rivela in un aggettivo, in un periodo al massimo.
Quest’altro Panzini, che è la nostra gloria, bisogna andare a cercarlo molto lontano, nel suo silenzio quasi ventenne, che è un problema artistico di non comune interesse. Ho detto in principio che è nato nel 1863 e non l’ ho detto per far conoscere una inutile data e soddisfare una stupida curiosità. È nato nel 1863 e la sua prima opera d’arte – Il libro dei morti- è del 1893.
[…]Seguiamo questo stesso filone di viaggi raccontati nelle Piccole storie del mondo grande, si leggono ammirevoli pagine su La terra dei Santi e dei poeti, che è poi Loreto e Reéanati. Chi ha letto quel libro ricorderà senza dubbio sempre la visita al paese di Leopardi e la commozione di Panzini sul monte Tabor o colle dell’Infinito. Stili ed anime che somigliano, quella di Leopardi e quella di Panzini: ambedue sofferenti di non veder nel mondo moderno l’eroico che credevano esistesse nel mondo antico.
« Di sotto si stendevano gli spazi interminati, e quel verso:
Ed erra l’armonia per questa valle
riempiva tutto quell’infinito e vibrava per la profonda quiete la quale parea sentire la magia di quel verbo presente come un suono che non tanto è nelle parole, quanto nelle cose.
Ma a quella passione che già mi aveva preso e mi trascinava come dicesse: «vieni, e anche tu odi la voce dei sovrumani silenzi e piangi!» riluttava con paura 1’anima mia, però mi staccai da quell’abbraccio di fantasmi e volli filosofare e filosofai alcune cose».
Periodi di questo tipo, che si colgono staccati negli altri libri del Panzini, nella Lanterna di Diogene formano invece la polpa del volume. Si esce da quelle pagine senza un minuto di aridità o di stanchezza lirica. L’impressione generale si può ben definire con la parola con la quale i tipografi indicano certi bei caratteri spaziati, dagli occhi aperti, dall’aste distanti: ariosi . Un libro arioso, dove si respira. Panzini ha raggiunto qui la divina misura. Anzitutto Panzini è in uno dei suoi momenti di gioia, meno tormentato dai dubbi e dalle riflessioni oscillanti che gli sono solite. Il contatto con la natura, la soddisfazione di sentirsi libero, l’incontro con le viventi memorie della storia d’Italia, lo commuovono senza la smorfia del sorriso di certe novelle. È un libro dove non è proposto nulla. Non ci sono virtù da sostenere ma una vita da rivivere. E l’autore ci riesce. La penna fu magica, in quel beato anno 1907 essa tradusse così bene ogni impressione, dettò con serene parole ogni traduzione poetica della realtà. Gran ringiovanitore il Panzini! La Vita nova di Dante « ed ecco un profumo di gigli », l’Orlando furioso, « una gran cavalcata», l’Odissea, « un profumo di mare azzurro su cui si stende il canto di Circe ». Così si parla dei classici: sensazioni che Gandino non aveva mai immaginato potessero passare per la mente d’un suo scolaro. Pianure e monti, tipi d’ogni genere d’umanità sfilano davanti a questa lanterna magica davvero. C’è dei Reisebilder per entro. Tutto parla al poeta. In questa capacità di lirismo misurato, di fremito senza contorcimenti, sta tutta la forza di stile del Panzini. Si potrebbe citare a piene mani: è così ricco, abbondante ed uguale; è nato scrittore fuori degli spasimi della giovinezza ed ha potuto guardare direi dall’alto del suo mestiere bene imparato. Intorno a lui si avvolge il formidabile equivoco per cui lo ammiriamo tanto io quanto la signora borghese che cerca nel Panzini il passatempo sorridente d’un pomeriggio vuoto. Le piacevoli avventure d’un precettore romagnolo in Milano durante la guerra sono state forse il segno di questo successo minore che l’ ha messo accanto ai più quotati fornitori di letteratura decente. È piaciuta, fra tanta generale scipitezza quella che chiamano la filosofia del Panzini, che poi è tutto, salvo che filosofia. Noi ne discorreremo un poco, perché proprio nello sbugiardar questa fama si rivela una delle più delicate molle della sua arte. Il Panzini è tutto l’ opposto di un pensatore. Non c’è virilità, non c’è scelta, non c’è pensiero che regga sopra se stesso e si crei. Di fronte ai problemi più ovvi e più vecchi egli si impaurisce ed oscilla. Va da un lato all’altro, guardando, e come volesse sempre sfuggire l’estreme conseguenze, ritorna al lato da cui era partito, per poi di nuovo fuggirlo. Non c’è decisione, non c’è nettezza.. Non osa, come i pensatori sicuri. Ma in questa sua torturante vicenda – che lo fa soffrire e stancare – sta un segreto della sua arte, giacché proprio in quell’oscillare, come di gocciola purissima attaccata a un filo di telegrafo, che si avvia al suo destino tremando e nello stesso tempo rifrange in bei colori la luce che la trapassa, proprio in quell’oscillare egli ha modo di mostrare la sua grazia e la sua umanità sensibile. L’arte non è fatta di acciaio e il pensiero è asta di durissimo acciaio.
L’arte non è decisione e nel Panzini è proprio indecisione fremente, concupiscente, debole, femminea. Le sue riflessioni non urtano, non costringono alla disciplina, ma carezzano anche quando vogliono essere severe, ma solleticano anche quando vogliono sferzare. E se non si esce dalla sua lettura soddisfatti, se ne esce sempre con una grande simpatia per l’autore. Egli soffre e lo si vede; egli ama e lo confessa; egli sente profondamente tutte le cose umane ed è una creatura così cara che non si può fare a meno di seguirlo. Perciò si può sempre dire, anche quando non è il Panzini migliore e maggiore, che è sempre Panzini, ed anche nelle meno felici sue produzioni, in certi articoli di giornale, come va talvolta scrivendo da qualche tempo a questa parte, dove si ripete un po’ troppe sulle solite faccende del caro vivere e del viaggiar male, del lusso femminile e della villania della gente di città, pure anche in quelli si salva per una certa aria di famiglia che vi troviamo con l’altre cose più grandi: è sempre Panzini, si dice per consolarci. La virtù dell’uomo, la sua umanità ha profumo anche lì dentro. Umanità è la vera parola che gli si addice. Certi sentimenti profondi dello spirito pochi come lui hanno saputo afferrarli ed esprimerli ora con potente lirismo ora con osservazione minuta. Io dico che pochi scrittori son stati così padre come è stato Panzini.
[…]Già: le donne così piaccion di più a Panzini. Si vedano i quadri delle sue famiglie modello, Leuma e Lia, per esempio. La donna intellettuale lo rende idrofobo. Non ha per lei che parole di sospetto e di accusa. Se lasci la conocchia e la culla, la donna è perduta. Il modo di considerar la donna come un essere la cui intelligenza consiste soltanto nella coscienza della propria bellezza, rientra armoniosamente in certo sistema panziniano di fare il provinciale. Spesso spesso il Panzini, cittadino di Milano e ora di Roma, si butta un po’ troppo al provinciale e il suo ideale di donna casalinga, il suo terrore per le femministe o anche per le più semplici forme di libertà femminili, vanno benissimo d’accordo con l’elogio dei paesi dove si vive tranquilli, con il suo amore di solitudine, con l’elogio dei paesi dove si vive tranquilli, con il suo amore di solitudine, con l’elegie per il pane di grano, il vino e gli appetiti di campagna. Panzini è per la campagna contro la città; soltanto perché la campagna rappresenta qualche cosa di arretrato rispetto alla città; e persino fra gli antichi egli ha l’abitudine di schierarsi per coloro che più ebbero forte il senso elegiaco per le buone costumanze che sparivano e l’orrore delle nuove perverse che sorgevano (noi moderni dovremmo, a starli a sentire, esser gran canaglie).
[…] Panzini è un paziente scrittore, e quei periodi scevri di ogni affettazione, che vi paion nati così senza alcuna fatica, son costati molte e molte ore delle mattinate antelucane di lui. Il suo lavoro consiste nello sfrondare e nel togliere i forti rilievi. È l’opposto dei giovani autori d’oggi, ai quali nessuna parola sembra abbastanza colorita, nessun periodo abbastanza vivace; e questa opposizione si rivela nel suo dizionario, e in tutte le sue opere, perché egli ha sempre avversato il fastoso, il fucato, il retorico, fin dai suoi primi tempi di scrittore. Il Panzini ha sempre provato fastidio per l’estetismo e per lo snobismo dannunziano come prova fastidio per l’impressionismo e la frammentarietà dei giovani d’oggi. Si sente classico, di idee e di stile. Appena appena qui e là, potete notare un certo bisogno di calzare il coturno ed elevare il tono del periodo: qualche “ella”, qualche inversione d’aggettivi (di verbi raramente ho trovato), per accentuare meglio il periodo, che è ritmico. Le immagini sono scarse, ma messe con mano destra. E ne vien fuori una prosa un po’ scolorita ma snella e di nobile schiatta; una prosa che direi bisogna guardarla, come le donne, nelle attaccature, al collo, alle caviglie, ai polsi. I periodi non sono quasi mai lunghi. Anzi danno il senso di una soverchia spezzettatura. Sempre su tutta la sua prosa grava il timore di non essere semplice. E poi quel periodare così rotto gli si presta bene per le piccole sorprese di spirito e di umorismo, per i contrasti che vuol far sentire: essi nascono meglio dopo il punto fermo, non danno il tempo al lettore d’esser preparati da qualche ma, se od altra particella con le mani avanti che avverte.
Questo è Panzini. Un caso ed è un fenomeno letterario, per un letterato. Un uomo, per gli uomini. Una natura di signore, senza denari, che appunto è più signore che mai, per chi lo conosce. Lo ammireremo alle volte come uno dei pochi lirici del nostro tempo. sorrideremo altre volte come ad uno dei rari umoristi del nostro popolo. E scherzeremo magari su certe sue manie. Ma: cappello alla mano. Di fronte alla letteratura senza raccoglimento che si svolge senza mistero di procreazione e vive alla finestra, l’esistenza seria, serena, alta di quest’uomo, che non si può trattare da “pompiere”, ci mette in un certo tono di riservatezza e di attenzione. Si può essere scrittori ed uomini? La guerra ha mutato molte cose, se non molti animi: ma parecchi che prima sarebbero forse stati tentati di risponder di no e di mettere un segno di equazione fra l’artista e il buffone, oggi risponderebbero, come ha sempre risposto il Panzini, di sì.”
Luigi Russo
Luigi Russo (1892-1961), in occasione del decennale della morte di Panzini, tiene al teatro comunale di Rimini un discorso che rappresenta l’ultima solenne celebrazione di Panzini, e, forse, il definitivo tramonto di un modo di intendere la letteratura.
Nell’apologia panziniana del Russo, è evidente l’amarezza del critico per la prepotente affermazione della figura del letterato politico e militante, che mette l’arte a disposizione della sua “fede rivoluzionaria”.
L’esperienza artistica panziniana, al contrario, costituisce l’estremo lascito dell’“umanesimo puro” e degli “ultimi petrarchisti”, che “dalla celluzza del proprio Io solitario hanno trascritto la loro vicenda interiore”, dialogando con i grandi della tradizione, e riprendendone, con modi e forme personali, il discorso e la missione.
Purtroppo, osserva con rimpianto il Russo, questi scrittori sono guardati, e accantonati, dalla società moderna come degli antiquati e obsoleti “arcadi”.
Per Russo, invece, Panzini è, tra gli ultimi grandi della letteratura italiana (Carducci, Pascoli, Verga, Pirandello), colui che meglio ha saputo rappresentare nella sua opera la fine dell’umanesimo.
“[…] Ma pur così com’era il Panzini, tutti lo abbiamo amato, tutti lo abbiamo prediletto, anche rispetto a quel suo fratello, non so se maggiore o minore, Luigi Pirandello, che procedendo da una tradizione diversissima da quella del nostro scrittore, ha interessato per il problematismo nuovo della sua arte anche le folle dei teatri e ha interessato il mondo dei due continenti. Ancora oggi, che il Panzini non è più con noi, critici e scrittori, e per citarne due dei migliori, Manara Valgimigli e Pietro Pancrazi, continuano a stampare e a commentare i suoi scritti più rari e più curiosi. Del resto quell’impertinente morditore (lo stesso Russo), parlò con polemico rispetto e scontrosa tenerezza di questo vostro Panzini, riconosciuto ed amato come l’ultimo umanista della nostra letteratura novecentesca; poiché in un altro scritto, attorno al ’20, così tentava di individuarne la posizione storica: «Il Panizini è l’uomo di due età; preso nell’anima da un ideale letterario, egli tradisce la sua commozione per questo ideale non più molto onorato dal mondo storico contemporaneo, e mal cela il suo fastidio per il nuovo ciclo di vita che si è aperto, e che non egli non riesce a penetrare nei suoi remoti e profondi valori. Espressione di questa sua commozione e fastidio, è il suo umorismo … in fondo egli è una vittima della letteratura, e la più sincera vittima dell’età nostra, e noi l’amiamo appunto per questa sua sincerità di sacrificio: egli vuole trattenere nella sua arte un mondo letterario che se ne è andato, e a cui i più smaliziati non credono più. […] Oggi il mondo letterario italiano è in dissoluzione e l’ultimo scrittore che tenta d’imporlo a se stesso con ingenua e tenera semplicità è Alfredo Panzini. E come al Boiardo la nuova storia turbò la libertà dell’illusione e la liquida gioia del canto, e una vicenda guerresca, quell’avventura di Carlo VIII, gli gelò la parola sulle labbra, così la realtà spirituale maturatasi prima della guerra europea e che nella guerra ebbe il suo impetuoso sviluppo, oggi è la terribile nemica del nostro scrittore… E’ questo il dramma del povero letterato» dell’umanista ultimo, oggi possiamo aggiungere, in una società che esige da te, se non vuoi finire arcade e cattivo soggetto, una fede sociale e politica di carattere rivoluzionario. Uno degli ultimi petrarchisti, si direbbe, che hanno sognato nella celluzza del proprio io solitario trascritto la loro vicenda interiore nelle dolci parole dei poeti consacrati dalla tradizione. Oggi l’umanesimo puro, da trent’anni o quarant’anni a questa parte, non ha più possibilità di sussistere , apolide come torre d’avorio nel mondo fatto tutto universalmente sociale e politico, donde la tragedia di tutti gli umanisti, di volere preservare la poesia del vecchio Elicona pur nella intransigente società contemporanea. Il Panzini è uno di quelli che ha sentito teneramente questa tragedia, l’ha sentita, vorrei dire con una avidezza di uomo umbratile, pur nella grandezza rubesta del suo corpo; da ciò questa sua ossessiva adesione alla realtà del mondo contemporaneo e al tempo stesso questo suo ritrarsi una commossa e patetica solitudine. Così si spiega quel suo scrivere che pare infido e guardingo, come ha detto recentemente e incisivamente Manara Valgimigli; ma, continua lo stesso critico, basta ascoltarlo ben dentro, la vibrazione della parola, perché subito si trovi confidente, abbandonato; quel suo scrivere «che pare malizioso e complicato e ravvolto, ed è aperto e cordiale e semplice; che pare scettico e amaro, ed è pronto a rompere in pianto; che pare anche stridulo talvolta di toni diversi e discordi, di parole alte e basse, ed è proprio in quel nobile variare e lussureggiare di aspetti e di modi la sua più personale e mirabile consonanza e coerenza».
[…] Con uno scrittore come Panzini non si finirebbe mai di citare tutte le sue più belle pagine e anche certi rapidi svoli di periodi, ed è strano: egli è uno scrittore di cui non abbiamo bisogno di seguire le vicende nel suo racconto, a qualsiasi punto, noi possiamo cogliere quella battuta, quella immagine, quel periodo che ci ricorda e ci riporta fantasie e commozioni della nostra giovinezza. Forse il Panzini non si legge più tutto di seguito, ma si legge sempre ad apertura di libro, come si fa coi classici, e perché Panzini non è vero narratore, ma soltanto un rapsodico confessore lirico.
Un altro più solenne e altisonante scrittore, il D’Annunzio, ci ha parlato delle città del silenzio, ma quando vogliamo sentire il fascinosi codeste città del silenzio, allora sfogliamo le pagine dei vari viaggi di un povero letterato, dalla Lanterna alla Madonna di mamà, da Il mondo è rotondo a Il padrone sono me. S’io ne avessi l’autorità, a tutti i viaggiatori che vengono a visitare l’Italia, consiglierei la lettura dei vari libri del Panzini; da Vicenza a Pisa, dalle terre di Comacchio a Ravenna, da Venezia a Napoli, tutto questo nostro caro paesaggio italiano è stato ritrascritto, ricreato, commentato, con tanto gusto dalla tenerezza dello scrittore, con l’appoggio delle reminiscenze dei suoi poeti.
Se ora noi volessimo definire quale il posto storico del Panzini nella letteratura del Novecento, dovremmo riprendere una affermazione che abbiamo lasciato cadere in principio, di Panzini come l’ultimo umanista-poeta del nostro secolo. Si vorrebbe far discendere il Panzini dal Carducci, dal Pascoli, da Severino, e indubbiamente questi scrittori sono presenti continuamente nella sua fantasia; umanista fu il Carducci, ma umanista che aveva ancora la fede compatta nel vecchio mondo inaugurato dal Tetrarca e il cui umanesimo aveva la virtù di arricchirsi di tutta quella linfa delle esperienze storiche dell’Ottocento, per cui egli riuscì poeta pieno di pathos, proprio di quel Medio Evo romantico contro il quale pareva fosse partito a oste, nella sua prima giovinezza. Umanista fu anche il Pascoli, ma egli acuì fino allo spasimo l’udito verso quel mondo pieno di mistero, pieno di grandi stelle, e in cui la terra era sognata e sentita anch’essa una stella fra le stelle e l’uomo piccolo e sperduto in lei; umanista fu Severino, ma circoscritto in una rievocazione letteraria di Biancofiore, un fantasma femminile perseguito tra i codici antichi e i rispetti popolari; umanista fu anche Renato Serra, ma già preso da un senso doloroso della solitudine e dell’inutilità della letteratura nel mondo contemporaneo. La storia sanguinosa, secondo il Serra, lascia immutata la coscienza degli uomini, lascia immutata la letteratura, le guerre travolgono le vite e il mestiere del letterato resta sempre il medesimo. Ma il Panzini si distingue da tutti questi suoi maestri e compagni per la sua maggiore e sofferta irrequietezza, per la coscienza che egli ebbe che veramente qualche cose finiva nella storia d’Italia, e, attraverso l’Italia, del mondo. Quel suo filosofeggiare sui movimenti sociali, quel suo mordere timidamente, approvare e disapprovare la nascente fede in un mondo nuovo, quel suo tremare nascosto per tutte le novità politiche e quel suo piegarsi doloroso e pavido alle nuove tirannie dei regimi moderni, sono tutte prove che il nostro scrittore sentiva di chiudere forse definitivamente un periodo storico: l’ultimo umanista della letteratura del Novecento, pieno del tremore che poteva avere quel fraticello medioevale di cui favoleggiava il Carducci, che per un momento apriva la finestretta della sua cella a guardare nel mondo, e se ne ritirava subito atterrito, abbassando il cappuccio sul viso per non vedere il bulicame della nuova civiltà in formazione. L’altro suo compagno di viaggio, Luigi Pirandello, non è più già un umanista: egli si riattacca a quella nuova poetica inauguratasi sotto il segno di Giovanni Verga, travalicata poi rapidamente nel gusto e nella sofferenza di un uomo che non appartiene più a nessuna regione, a nessuna città, e che riconosce per patria soltanto il chiuso del proprio cranio, vaneggiante in una solitudine in cui l’io appare sempre diverso a se medesimo, uno, nessuno e centomila e di conseguenza piega a una assoluta accettazione dell’irrazionale, come l’irrazionale fosse l’argonauta sano e legittimo delle menti e degli animi nella civiltà contemporanea. Il Pirandello si fa vittima persuasa di questa pazzia germinale che è nel cantuccio del cervello di ogni vivente, ma tra l’arte di un Pirandello così complessa e piena di sofferenza e l’arte di un Panzini, più esterna e più lineare, ma anche più ricca di stile e di gusto, le preferenze dei sopravvissuti umanisti sono sempre state per quest’ultimo.
Non si tratta di un giudizio rigorosamente critico, perché i due scrittori sono assolutamente incomparabili; ma è vero che quando noi vogliamo soffrire meno e riposare nella visione patetica della letteratura e dell’umanesimo tradizionale e di alcune fedi dei nostri nonni, le nostre preferenze vanno all’opera e ad alcune singolari pagine di Alfredo Panzini. Ci ricordiamo del suo commento, sulla via che percorre in gita, al cippo che copre le ossa di Anita Garibaldi:
«Per la via che tu, o uomo, percorri, se incontri segno di pietà o di dolore, sia immagine, sia lampada, sia croce, sia tomba, scopriti e prega.
Freme dalla storia e dalla memoria delle gloriose opere uh brivido come di vento che passa continuo, e i vivi ne sentono il gelo, e la fiamma dentro al cuore.
Oh, guai se i morti non dessero forza ai vivi.»
Orbene Alfredo Panzini con la sua arte inquieta, sorridente e dolorosa, smarrita, come dell’uomo trattenuto dai fantasmi del passato, e pur minacciato in avanti dai nuovi miti motorizzati della vita sociale e politica del secolo, è ancora uno scrittore-poeta, che può dare una qualche forza, un qualche viatico, a noi sopravvissuti.”
Renato Serra
Nonostante la brevità della sua vita, il cesenate Renato Serra (1884-1915) è un gigante della critica italiana, lo studioso che meglio ha testimoniato, e vissuto, la crisi del letterato e dell’ideale umanistico nell’epoca della modernità trionfante.
Curiosamente, considerata la vicinanza tra Bellaria e Cesena, trascorrono ben tre anni di contatti epistolari prima che Panzini e Serra finalmente si incontrino nel 1912.
Panzini descrive con toni commossi la prima visita di Serra nella prefazione a “La Madonna di mamà”, dedicata appunto all’amico da poco scomparso sul fronte. Ne nascerà un’amicizia, anche se tragicamente breve, profonda e intensissima.
Da questi dati si nota che il saggio di Serra su Panzini, apparso sulla rivista “La Romagna” nel 1910, è composto precedentemente alla loro frequentazione.
Lo studio di Serra sancisce lo spartiacque della fortuna critica di Panzini. Il critico delinea un ritratto a tutto tondo, comprendente, oltre all’esame stilistico e formale, un gustoso ritratto umano. In questo testo, per la prima volta, è studiata l’influenza di Carducci, che Serra ritiene più morale che artistica. Serra nota che la scrittura di Panzini nasce da una serie di penosi ed irrisolvibili conflitti interiori che incidono a tal punto il tessuto narrativo delle sue opere da ridurre spesso i personaggi a personificazione di idee.
Per Serra, Panzini rappresenta, seppur in tono minore, la continuità della tradizione, tanto da conquistarsi l’appellativo di “scudiero dei classici”.
“La scuola non ha saputo cambiarlo e neanche la gran città; è rimasto semplice, bonario, con la sua natura schietta e coi suoi gusti casalinghi. È uno dei nostri; un po’ goffo, se volete; ma col cuore sano e l’anima generosa. Tutta quella così detta scienza, di cui la sua mente si è adornata, non lo fa né superbo né contento; ; egli in mezzo allo strepito di Milano sospira il suo paese e la sua lontana. […] Questi sono proprio i gusti di un romagnolo: egli li conserva schietti e li esprime semplicemente. Vi sa parlare del pane fresco e del buono vino sano del suo paese, della frutta saporita e delle lenzuola di bucato, che rinfrescano così bene il viaggiatore stanco nel letto di casa o anche in un letto di locanda, all’ora della siesta, alla quale il ciclista leva il suo inno: «O frescura delle lenzuola di bucato, o voluttà del buio nella stanza, con la coscienza che lentamente si spegne (vedendo però attraverso un tenue spiraglio della finestra l’immagine del gran sole!), o sonno senza sogni, senza visioni, senza sussulti! Quante poche parole mi accade di dormire così!»
Perfino nella letteratura egli porta questa sua semplicità; e « Io voglio molto bene », dice, «all’Ariosto; ma oltre che pe’ suoi sogni sereni, molto io l’amo per le sue verità buone; fra cui questa:
In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco m’inforco».
Le sue pagine sono piene di questa sensualità sana e lieta. Essa vi tocca il cuore di profumo paesano, così come quelle prime violette che la mamma ha colto per lui sulla ripa del viottolo che porta a marina, e gli ha inviato dentro una lettera.
Del resto, Milano e tutta quella civiltà e modernità lo seccano alquanto; l’abito nero delle cerimonie ufficiali gli stringe, i quartieri d’affitto son troppo piccoli e cari e senza scoperto; c’è troppo fumo, polvere, fracasso. O scapparsene in riva al mare, in campagna, a respirare l’aria pura e a godere un poco di pace! […] Egli desidera infinitamente il mare e la campagna; gli alberi e l’erba fresca, le casine pulite col pergolato intorno e il frutteto, e il gridio delle galline sull’aia nei chiari mattini. Ma il suo amore è sano e umano, non è idillio, non è ebbrezza dell’anima delle cose. Egli ama nei campi non meno la bellezza, la fragranza che la bontà e l’utilità; col sentimento di un antico egli trova che la vita ivi è compiuta della naturale operazione di ogni sua facoltà.
Quanto dolce sarebbe lavorare la terra e godersene i frutti per l’uomo condannato alla oscura noia dei libri e della città!
L’ideale suo è più di vita che di poesia. Egli guarda nei campi non solo il verde ma anche il contadino; lo guarda con occhio umanamente sereno, al quale i calli delle mani e l’indurimento delle giunture affaticate non sono meno visibili che il viso fosco e la cravatta rossa, e le bocche inasprite dall’urlo dell’inno.
Questo professore dalla cera bonaria è rimasto sempre, e sopra ogni cosa, un uomo, in mezzo agli uomini; i loro disordini e le lotte, i contrasti e le iniquità della loro condizione, non sono per lui uno spettacolo vano.
Se alcuna volta vi parrà che la sua intelligenza lo disponga allo scetticismo, sotto l’apparenza ironica voi troverete sempre la natura pratica e generosa del romagnolo; per il quale problema massimo dell’universo è l’assetto delle cose umane. Col cuore colmo di ansia egli interroga il destino e spia da che parte debba discendere fra gli uomini la giustizia e la felicità.
Vi par egli che questa natura sia un po’ troppo terra , rustica, provinciale?
Ma tale è il Panzini; e a pensarci un poco, è poi molto facile conchiudere che in tanta cosiddetta complicazione e artificialità della nostra letteratura, la semplicità di quest’uomo, dall’animo onesto e dal sentire limpido e schietto, deve pur avere il suo pregio e il suo profumo. Esso resta fra le pagine dei suoi libri come lo spigonardo fra le tele bianche: hominem pagina sapit.
[…] Ricordiamoci la sua condizione; di professore. In questa parola sola è racchiusa per molta parte il dramma della sua esistenza. E di quante altre!
Chi non lo conosce questo tipo così malinconicamente comune del buono allievo delle Muse, costretto a tirar la carriola e a girare la macina dell’insegnamento?
È il tipo mezzano fra i due estremi; del professore dagli occhiali e dalla fronte lucente, destinato a volare com’aquila nei cieli della scienza accademica e ufficiale; e del pover’uomo raggrinzito, accartocciato e rincretinito fra i registri, i colleghi, i compiti, i figlioli, la moglie, la serva, e i genitori degli alunni e i pettegolezzi della cittaducola di provincia.
Ma costui, come dicevo, sta in mezzo, con la sua figura un poco smorzata e sfumata e quasi stinta; con quella schiena un po’ gobba e quel soprabito forse un po’ frusto, intorno a cui aleggiando le ricordanze di Virgilio e di Dante suscitano un’impressione vaga, dove il sorriso si confonde con la tristezza.
Come si può essere stati giovini, generosi e audaci, avere goduto per lunghi anni la conversazione dei magni spiriti, avere amato la poesia o sognato forse la gloria, per ritrovarsi poi infine maestri di grammatica e di ortografia a una turba di fanciulli petulanti?
Questo è il destino di molti.
Ai quali la scienza e i titoli per i concorsi non valgono a riempire il cuore; né la lotta con gli scolari e con lo stipendio basta a disseccare al mente. Noi sentiamo a guardarli, per quanto ispidi e curvi nell’ingrato ufficio, che essi non erano nati a ciò; erano nati, come ogni altro uomo fra noi, a vivere e a amare e a guardare queste belle cose del mondo.
Si sono rassegnati, ma non sanno adattarsi; non sanno dimenticare la giovinezza e la poesia. Un’ombra ne corre ad ora ad ora sulle fronti, un rimpianto ne trema nella voce.
Tutto questo può essere qualche cosa di muto quasi e non avvertito; un’ombra appunto o una sfumatura, fra comica e malinconica. Ma può anche essere un senso più sottile e più ricco, un tormento segreto e molteplice; se non la ribellione superba del poeta, che distrugge nel suo spirito le coniugazioni e i registri e affonda in quel cielo che solum è suo, almeno il sospiro melodioso e arguto di Severino (“mentre con gobbe spalle va sfregiando/ nella scuola gli errori d’ortografia”) … e può essere anche la voce del Panzini.
Nel quale la contraddizione è inconciliabile fra la natura e il destino; ed è dissidio dell’umanista col pedagogo; della natività e sensualità del carattere con la servitù quotidiana; del poeta con la vita.
Il dissidio si sfoga nell’opera. Aggiungiamo che non vi si discioglie così come il dolore nel pianto o nel canto; ma dentro vi resta, e freme, e mormora, come acqua rotta da remolo in consumabile.
[…] Nella persona del Carducci il Panzini si trova di fronte a tutte le angosce e a tutti i desideri che seguitarono ad agitare la sua arte, e anche la vita. Egli era scolaro del Carducci. Questo è stato per lui suggello quasi di una seconda natura.
Egli poi è molto vicino a quella generazione, poca e scelta, dei veri scolari del maestro, pieni della sua voce e del suo nume, che in lui conobbero e conchiusero tutto l’ideale del loro spirito; candidissimo esemplare ne restava il buon Severino.
Dico il Panzini tiene molto di costoro; se non quanto il suo temperamento nativo e gagliardo ha consentito solo agli influssi più geniali. Né intera ha ricevuta la impronta carducciana nello stile; e né meno, lasciando stare i versi, che pare non abbia scritti mai, ha accettato l’abito, dominante nel maestro, dell’erudizione e della ricerca storica.
Ma l’ideale della vita e dell’arte e della generosa umanità da cui l’ha ricevuto; e brilla ancora fermo nel cielo della sua mente. Con tutte le sue contraddizioni e i mancamenti e i partiti presi.
Per il Carducci, lasciatemi accennar come posso, l’ideale veramente vivo è la poesia; sentita e amata non soltanto come pienezza lirica del cuore, ma come abito e gentilezza della mente, conversazione e comunione con i grandi, opera di civiltà e di nobiltà umana. La sua poesia è anche pratica, è storia, è patria, è aristocrazia; è sopra tutto umanità. Se non che i concetti che dal grossolano positivismo del suo tempo egli ha troppo spesso raccattato sull’indirizzo pratico della civiltà moderna, sull’utilitarismo e la democrazia, fanno nella sua mente grido e contrasto; gli rappresentano l’ideale suo per falso, retorico, scolastico; né egli riesce a sciogliersi nettamente dall’intrico, se non in apparenza, come quando riporta la poesia al passato, accettando che sia morta nel presente e nell’avvenire; oppure il suo temperamento poetico si rivolta, e sopra le incertezze del pensiero si afferma la prepotenza eterna e libera delle canzoni.
Ma il Panzini non mai uscito intellettualmente dalla forma del maestro. Egli era ed è rimasto innamorato della poesia, della cultura, della civiltà secondo i nomi e i sentimenti antichi; e pur convinto insieme che tutto questo sia falso e nomi vani: che il tempo speso sulle pagine dei gloriosi volumi sia perduto, e scemo il loro insegnamento; che il fine dell’uomo oggi sia affatto utilitaristico e democratico, e che il suo valore sincero debba avere una misura solamente materiale. Questo il suo istinto rifiuta, ma la ragione riconosce per vero, con alcuna amara voluttà: e lo spirito si dibatte fra i due contrari poli, senza mai trovare pace.
Nella “evoluzione politica” egli affrontava per la prima questo problema morale della sua generazione, combattuta fra la insufficienza dei vecchi ideali, e il vuoto il disgusto dei nuovi; e tentava di superarlo fingendo, nel nome del Carducci, un tipo dell’eroe, che mantenesse le ragioni della storia civile e della persona umana sopra la eguaglianza moderna delle masse.
La risoluzione era affatto superficiale; l’eroe mancava di ogni consistenza intellettuale e fantastica.
Ma se in questo si dimostravano i limiti dell’intelligenza del Panzini, che è più savia e chiara che non vasta o speculativa.
[…] In quanto ai tormenti del suo spirito, egli non si provò a risolverli col pensiero; ma, avendoli accettati con rassegnazione, si volse piuttosto a svilupparli e assaporarli con una sincerità fra dolorosa e curiosa.
Le novelle sono, con le loro qualità preziose di narrazione e di rappresentazione, talora un divertimento, talora uno sfogo dell’autore. Sovente si tratta di saggi, vibrazioni, divagazioni un po’ fantastiche e un po’ sentimentali; ma anche quando della novella c’è la favola e la forma esteriore, non c’è quasi mai lo spirito vero. L’interesse dell’autore non è nei personaggi, di cui gli accade di raccontarci la storia; è nel suo proprio cuore. La voce di lui parla su bocche diverse; la sua narrazione è sopra tutto un lungo e meditativo soliloquio, variato a tratti di immagini e di figure leggere.
[…] Quel che più spesso l’assale è il dubbio (ricordatevi del professore e della figura che gli conosciamo) intorno al valore e alla utilità della cultura, dei sogni e delle illusioni poetiche.
[…] Non v’inganni la piacevolezza del narratore a rilevare gli aspetti comici e anche un po’ ridicoli di queste avventure; in quei personaggi e in quei casi egli ritrova se stesso; e tuttavia la noia e la pietà, e il desiderio vano di giovinezza e di gioia che parla in quelle anime, è la voce dell’anima sua.
O giovinezza che passi e non torni, o amore che sorridesti e non sorridi, come quest’uomo, che sembra al viso così tranquillo, ti cerca dentro il suo cuore e ti piange!
[…] Il vero è che naturale argomento del Panzini è la sua propria vita, naturale espressione del suo spirito, è il soliloquio e la meditazione.
La novella sua par che non trovi in sé sola consistenza; i suoi personaggi sono figure e profili segnati con rapida bravura più assai che creature parlanti. Curioso per un momento della loro forma, egli le abbandona presto per ritornare sopra se stesso; e se pare che più a lungo le accompagni nei loro movimenti, si trova poi che è un’illusione. Non a caso i suoi dialoghi sono così stilizzati e generici; quasi tutti trascritti in forma impersonale, con le parole e le cadenze dell’autore. Egli non è mai osservatore schietto del vero; ne conosce soltanto quella parte che ha potuto appropriarsi e ricavare dall’interno suo.
[…] L’episodio notato dal novellatore diventa problema e meditazione per il moralista. Il suo pensiero balza per raffronti subitanei e inaspettati alle cime donde la vita appare come piccolo gioco di ombre nere sullo scenario vano; una vasta e solenne tristezza alita intorno. E se bene alcuna vilta la solennità è solo nella voce, intonata a una semplicità di sapiente, un poco posticcia, come la barba e il mantello di certi filosofi d’occasione, molto più spesso la efficacia di quel parlare è profonda, ricca di malinconica umanità. Tutti gli episodi della commedia scoloriscono a un tratto e perdono forma; resta innanzi a noi il teatro nudo e nudi e soli i grandi argomenti dell’eterno dramma; l’umano travaglio, con sue vanità e con la speranza inestinguibile, e la morte e l’amore …
Aggiungete che tutto questo è sentito non la mente pacata e curiosa del moralista, ma col cuore del poeta, che tutte le cose umane riconosce per proprie; e avrete intesa l’ultima nobiltà del Panzini. Poeta egli è per essa, e il suo luogo è naturalmente fermato, non importa se in alto o un poco più in basso, nella buona e antica e umana famiglia dei poeti e della nostra razza, creatori di bellezza e consolatori di uomini. Non ci inganni la eguaglianza del viso e la remissione del tono; la poesia è dentro, è la qualità intima e la segreta felicità di quest’uomo, di cui ci riesce così caro il semplice ritratto.
[…] Dice la gente alla lesta che Panzini scrive bene; e qualcuno lo pone già nel numero di quegli scrittori onesti e culti, la cui frequentazione si può consigliare agli scolari, per castigo della forma del dire. Non hanno torto; poiché la cultura si sente bene in lui, e l’abito della scrivere derivato dalla buona tradizione italiana, e un odore di classicità. Prendo un periodetto a caso. «Io sentivo in quel principio del viaggio il caro del fiore della giovinezza olezzare ancora sul mio dispregio del mondo, come un cespo di viole a ciocche sparge la sua chioma odorosa sopra un cumulo di miserande ruine». Dovrò io sottolineare quel caro fiore, quella chioma, quelle ruine consolate d’un buon aggettivo? Chi ha scritto queste parole, chi ha tradotto così agevolmente il suo pensiero in immagini non meno accademiche che decenti, è, come dicono, uno scudiero dei classici.
[…] Si sente troppo bene la intenzione studiosa e ritirata dall’uso volgare, non meno nella scelta dei vocaboli che nella forma del discorso; e poi quella pulizia fra il classico e il toscano, quella cotal gravità degli aggettivi premessi al nome e collocati in simmetria, quella veste solenne di cose semplici, rendono assai di lontano l’odore delle letture e dei buoni studi. Il quale è diffuso in tutte le pagine, e lo esprimono i latinismi della elocuzione, più o meno schietti, e tutte quelle inversioni e artifici e figure classiche della frase, che sarebbe ozioso illustrare. Classica è la consuetudine di sciogliere quasi le cose comuni nei loro elementi generici, sì da rappresentarne la forma con una certa solennità; come per il mangiar le anguille, e berci su: «i comacchiesi serbano alle loro amatissime anguille una tombali questo forte e sapido vino nei loro stomachi».
Classico infine è il costume di fiorire i discorsi anche umili di motti e allusioni letterarie; costume discreto del resto e parco, che non disconviene alla usata modesta dello scrittore.
[…] Amore religioso dei classici e studio assoluto di sincerità; questa lezioni egli, e i compagni suoi avevano appreso dal Carducci; e non già in frasi ambiziose l’avevano mandata a memoria, ma se n’erano resi ragione punto per punto nella conversazione degli scrittori e nella pratica e negli effetti dello stile.
[…] Dico che a rendersi conto della virtù di questo scrittore bisogna considerarlo nella sua qualità di poeta; non così grande forse, ma sincero. Io non guarderò ora molto a quelle abitudini così dette poetiche, che pur si potrebbero assai facilmente notare nella prosa di lui. Poetico secondo il sentimento comune è tutto ciò che si esalta un poco, al di sopra della quotidiana conversazione, non per un motivo praticamente apprezzabile, ma così per passione e per sfogo del cuore, e per bellezza, come dicono, per ornamento: e il Panzini cade spesso sotto questo giudizio, con tutte quelle sue esclamazioni e contemplazioni, sopra tutto con quella sua forma di parlare immaginosa, con quei tocchi di colore naturale e fantastico gettati con semplicità quasi epica in mezzo al racconto.
[…] Egli ha dalla natura, per quanto non sempre e con uguale felicità, il dono della espressione classica: voglio dire di quella espressione piena e definitiva che par che renda a tutto quello che tocca la tempra dell’oro. Sono salde come l’oro certe sue parole, limpide e pure e sonanti.
[…] La virtù non è nelle parole prese a una a una; è nella loro disposizione, che pare tanto lungamente pensata, e maturata alla fine nel punto più felice, è in quel non so che di puro e definitivo, onde restano quasi scolpiti i contorni e aperti e grandi gli spazi, e poca musica basta a colmarli d’incanto. Questa è quella qualità che siamo soliti a chiamar classica; quella qualità di bellezza durabile che appartiene alle parole tempestive e collocate nel luogo opportuno, alle cose ridotte da lunga contemplazione alla purezza delle loro linee essenziali; che nasce dalla modestia degli animi ben nati, quando aggiungono il più felice effetto col moto più lieve. E così ragionando in grosso par che si possa distinguere questa pienezza delle parole semplici, dette nel momento essenziale e con l’accento definitivo, da quell’altra sorta di effetti, realizzati non così di primo colpo e signorilmente, ma per ritocchi e approssimazioni successive, consapevoli e studiosamente acute; come si vede, in qualche modo, paragonando un verso di Lucrezio o di Virgilio (“pascentem niveos herboso flumine cycnos”) a qualche moderno, al sonetto di Heredia o a una pagina fluviatile di D’Annunzio. Allora si sente nella distanza fra la ricchezza scoperta numerata minuta dell’uno e la bontà quasi celata dell’altro, differenza d’animo e di qualità.
[…] Così nascono nelle sue pagine forme e figure umane; non crudelmente penetrate e incise, ma segnate appena con mano leggera; una sola pennellata di trasparente acquarello basta a rendere l’impressione del vivo, quando cada bene sul disegno magro.”
Le lettere di Panzini a Serra sono state raccolte e pubblicate da Alfredo Grilli: Panzini a Serra, Bologna, Aldina editore, 1940.
Oltre allo scritto citato, Panzini dedica a Serra alcune delle sue pagine più ispirate del Diario sentimentale. Inoltre su Il Cittadino di Cesena del 24 luglio 1921, Panzini traccia un ritratto dell’amico in occasione dell’arrivo della salma nel suo paese natale dopo sei lunghi anni.
Questo saggio, insieme ai principali testi di Serra, è contenuto in Scritti letterari, morali, politici: saggi ed articoli dal 1900 al 1915, Torino, Einaudi, 1974
Panzini è quasi il solo, oggi, artista moderno
L’interesse di Serra per Panzini prosegue, in un contesto più generale e perciò maggiormente significativo, ne Le lettere.
In questo studio Serra si propone di redigere la “cronaca” della stagione letteraria italiana del primo Novecento. In questa occasione Serra lima il suo giudizio, eliminando le piccole ombre presenti nel primo saggio. Già dal folgorante incipit si comprende il ruolo di primissimo piano assegnato da Serra al nostro scrittore: «Panzini è quasi il solo, oggi, artista moderno». A conferma della natura un po’ atipica dell’ispirazione panziniana, che sembra tendere per naturale disposizione alla poesia per poi ripiegare quasi timorosamente sulla prosa, Serra menziona Panzini pure nel capitolo dedicato ai “versi”, laureandolo come il vero poeta della sua generazione, a dispetto dei Bertacchi, dei Collutti, dei Cesareo e della forma letteraria prescelta.
“Il Panzini è quasi il solo, oggi, artista schietto: non si dice che sia grandissimo, ma è della famiglia dei grandi.
Lavora anche lui per il nostro mercato letterario, pressappoco come gli altri, in apparenza; è uscito a mano a mano da quella ombra mezzana in cui era rimasto con le prime cose, e si trova oramai in prima luce, pur senza rumore e senza spicco soverchio, che non è da lui; ma i giornali e le riviste lo cercano, il pubblico lo legge, e la critica la ha esaminato con serietà. Si direbbe anzi che si sia piegato un po’ verso il suo pubblico; la sciando quella parte quella forma di libro personale, che ci ha dato fin qui il suo capolavoro, la Lanterna, e limitandosi alle novelle di tipo più correnti, come sono nelle ultime due raccolte. Ma non è vero affatto. Insieme con le cose comuni altre son venute fuori, personalissime anche nella forma, come quel curioso bozzetto di Santippe, che sembra un piccolo viaggio fra di fantasia e di ozio letterario per l’antichità, e ha invece momenti di lirismo fiorito e di attualità così inquieta; e qualche pagina di novella, o piuttosto ricordanza, in cui par di vedere il segno di una maniera nuova. Panzini non è mai stato così vivo come in questi anni; con quelle disuguaglianze che son proprie dei poeti. Perché la sua natura è di poeta, pur senza il dono del verso; è il poeta della generazione che ha seguito il Carducci; parla per Severino, per il Signorini, e per tanti altri – lasciamo andare il Pascoli, che non appartiene a nessuna generazione. Scolari del Carducci, che lo seguivano nella modestia e nella semplicità del vivere e nell’amore grande e pudore della poesia; ma non avevano di lui la pazienza e la potenza letteraria, il gusto dell’erudizione e della storia, i pregiudizi; e neanche la selvatica felicità del temperamento.
Il Panzini scrive alcune delle novelle che si scordò di scrivere il Carducci; le scrive semplicemente, senza cura di modelli francesi, che non ha mai guardato, né, forse, conosciuto; con un sentimento della vita e dello stile, che è carducciano nel suo principio, ciò è nella schiettezza di un classicismo che non è solo decenza della lingua e insaporimento letterario della fantasia, ma sopra tutto consolazione di umanità, commozione non retorica delle grandi cose belle e del contrasto senza rimedio con la realtà misera e cieca.
È lieve questo classicismo, come in genere l’apparato letterario del Panzini; che si direbbe scarso, povero in confronto della minuzia retorica dei vecchi o della cultura dei nuovi; non molto di greco e di latino, poco moderno; letteratura d’Italia, senza squisitezze, e non con curiosità uguale, ma a tratti di simpatia e antipatia robusta: e tutto questo poi è scrollato e turbato dagli scatti di un carattere insofferente, che arriva nella sua sincerità a un odio non meno illusorio che naturale per ogni letteratura.
Il vero è che Panzini ha un temperamento nativo d’artista, ricco di movimento bruschi e di voci fantastiche, non sempre felici e limpide, ma sempre schiette. La educazione letteraria da prima si è imposta a questa natura, semplificandola, riducendola a essere quasi solo una intensità e una risonanza pura del linguaggio volontariamente mediocre e tenuto all’esempio dei grandi: ma poi a poco a poco ha subito di più la forza della persona, che contrastava coi suoi crucci e con le sue nostalgie, con le illusioni e con le riflessioni, alla forma quieta dello scrivere e dell’osservare; e ne è venuta, anche nei bozzetti alquanto superficiali e nella dilettazioni leggere, quella nervosa e interrotta armonia, quella luce a sprazzi liquidi e ombre spezzate, quel non so che di lirico e pieno, che è la qualità vera della bella prosa di Panzini; prosa viva, d’impressioni e di ritmo, di difetti e di grazia.
Oggi il progresso dell’analisi e della purificazione interiore pare in qualche momento più profondo. Le sue cose hanno perduto un poco di sapore e di fiore. Son più nude; esprimono meglio l’uomo che è debole, senza forza di giocare con le anime e di creare degli effetti secondo la sua volontà: sensitivo e ombroso; tormentato da un bisogno di affrontare e agitare dei problemi, in cui si rivelano certi limiti della sua cultura e della sua intelligenza; ma che sono terribilmente seri, per lui solo.
In quella solitudine la parola è diventata ancora più intensa e semplice; crea delle sensazioni definitive, e dice delle cose di una umanità commovente, così vera che ci fa scordare qualche volta di essere lettori sopra una pagina, ci fa corrugar la fronte con una ansia di uomini davanti alla pietà e alla oscurità sorda della vita. Pochi hanno mai parlato come lui delle madri e dei figli; dei vecchi e dei giovani.
Panzini e Serra
di Cino Pedrelli*
Siamo soliti dire che Serra ebbe due interlocutori privilegiati: prima Luigi Ambrosiani, poi Giuseppe De Robertis. Dimentichiamo il terzo: Alfredo Panzini, la cui presenza (anche nei silenzi) diventa anzi dominante nel sentimento e nel pensiero di Serra dal luglio del ’14 al luglio del ’15, l’ultimo anno di vita di Serra.
Accade anche l’inverso, e per un lungo periodo: la presenza dominante, polarizzante, di Serra nel sentimento, nel pensiero, nell’opera di Panzini dal luglio del ’14 alla data della morte di Panzini, il 10 aprile 1939.
Da questa congiunzione (un poco anomala, dato il divario delle età, 21 anni, una generazione), nasce una delle più belle pagine di Serra; nascono alcune delle più belle pagine di Panzini.
Varie componenti contribuiranno alla nascita di queste pagine dolorose e felici: l’affetto umanissimo che lega i due personaggi; l’eccezionale momento storico che sono chiamati a vivere nell’ultimo anno di vita di Serra, e per il quale Serra sarà chiamato a morire; e – accidentale ma essenziale – l’ambiente marino nel quale hanno luogo i loro ultimi incontri, che entrerà nel giuoco non soltanto come paesaggio, bensì anche come elemento catalizzatore sul piano dei processi spirituali ed artistici, portando nel proprio grembo il potenziale di una simbologia tanto inconsapevole quanto illimitata.
La pagina di Serra è quella che si rivolge a Panzini nell’Esame di coscienza. Se mai c’è stato un Serra esistenziale, un Serra che si muove amleticamente tra l’essere e il non essere, dopo il Ringraziamento a una ballata di Paul Fort, è il Serra di quella Pagina. Leggiamola una volta di più:
“(…) Era una delle ragioni per cui io rimanevo più tranquillo accanto a lei che balzava e fremeva: mi guardava con gli occhi fissi, vedeva forse di me solo un’ombra, piccola fra grandi ombre nere calanti sopra la terra. Anch’io cercavo altre cose, fuggite e desiderate, perdute e presenti, laggiù sulla riva del mare; sull’orlo, dove l’onda fugge e ritira con sé l’ultimo velo dell’acqua, mentre i fiocchi di spuma si spengono con un sibilo lieve; resta scoperta una riga di sabbia bruna, umida e intatta, come un sentiero nuovo per venirci incontro a piedi scalzi… nessuno. Nessuno deve venire.” (Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, in: R. S., Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, vol. I, Firenze, Le Monnier, 1938)
Non è la prima volta che Serra rappresenta sé, od altri, mentre cammina lungo la riva del mare. Ci sono, nelle pagine che ci ha lasciato, in prosa o in versi, almeno altri tre luoghi in cui questo accade.
Il luogo più recente è di due anni prima, quando Serra scrive. Era di un anno prima, quando Serra percorreva, a fianco di Panzini, questo tratto della spiaggia di Bellaria, da casa Panzini verso nord-ovest, verso Cesenatico, fino alla foce del Rubicone; o piuttosto viceversa. C’è una lettera inedita di Serra a una sua donna (certamente una delle tre donne di cui si parla nel Ringraziamento a una ballata di Paul Fort) in data 31 agosto 1913. Una sua donna che, in quel periodo, trascorreva i mesi dell’esatte in una sua casa di campagna, alla periferia nord di Bellaria: quella che guarda appunto verso la foce del Rubicone e Cesenatico. La lettera ha questo inizio:
“Buon giorno bella! / Buon giorno t’hanno detto le onde, le piccole onde fredde del mare mattutino (…) / Mi verrai incontro sulla striscia di sabbia bruna umida del mare che s’è ritirato allora allora, e liscia e pulita, non pestata ancora da nessuno; come un sentiero nuovo fatto per l’amore.” (Renato Serra, Lettera inedita a *, 31 agosto 1913)
Il ricalco, nelle immagini e nelle parole, con la pagina dell’Esame, è di tutta evidenza e non ha bisogno di commento.
Andando ancora a ritroso nel tempo, troviamo una terza testimonianza, ed è una lirica, inserita in una lettera a Plinio Carli in data 15 agosto 1908:
“Ma tu quando vai scalzo per la duna
un’onda dopo l’altra ti saluta
e la schiuma dell’ultima venuta
fiorisce innanzi a te la sabbia bruna”.
(Renato Serra, Epistolario, a cura di Ambrosini, De Robertis, Grilli. Firenze, Le Monnier, 1934)
Non guardiamo se i versi di questo Serra ventiquattrenne siano belli o meno belli o meno belli. Altra cosa è quella che ci interessa, in questo momento.
Ancora un passo indietro nel tempo, e arriviamo ad un Serra ventenne. In data 30 ottobre 1904, Serra manda ad Ambrosini un suo sonetto, intitolato ad Achille “figlio d’Omero”. Il sonetto si chiude con queste terzine:
“Ma il cor mi tocchi più, s’io vegga andare
stretto alla madre dalle bianche braccia
te su la riva del canuto mare;
e rigarvi un comun pianto la faccia
il fior pensando della tua bellezza
fanciulla, e il fato che già già la spezza.”
Anche qui eviteremo di chiederci se i versi siano più o meno belli, e andremo in cerca di altri valori. Fra questi, abbiamo creduto di indicare, in altra occasione, una specie di inconscio presentimento, una inconscia prefigurazione: al di qua di Achille e Tetide, ci sono Serra e sua madre, alla vigilia della morte di Serra.
Quattro luoghi serriani. Quattro solitudini marine. Quattro battigie, lungo le quali si muovono figure umane.
Variano, di queste figure, i sentimenti: che passano dal più lieto e lieve (dell’ode a Plinio Carli) al più drammatico (del sonetto ad Achille).
Non varia un motivo di fondo. Questo Serra (o chi per lui) che mette un piede dopo l’altro lungo una ristretta striscia, un ristretto sentiero, che non è terra e non è mare, ma è l’uno e l’altro insieme, è terra che sconfina nel mare; è in realtà un Serra che cammina, che ha sempre camminato, in una simbologia istintiva, sul confine sottile che divide il finito dall’infinito, il conoscibile dall’inconoscibile, il materiale dall’immateriale, il transuente dall’eterno, l’essere dal non essere. Un non essere che forse è un essere più alto e diffuso.
Veniamo ora a Panzini. Altri fondali marini, altri temi, diversi, tratti dalla stessa inesauribile matrice.
E’ di Panzini la pagina più bella e commossa che sia stata scritta per la morte di Serra:
“(…) All’annunzio della sua morte, io sono fuggito lungo la riva del mare. (…) / L’agosto dello scorso anno, noi andavamo come fraticelli lungo la riva di questo mare, e recitammo insieme, quasi con devozione, il sonetto del Tetrarca:
Sennuccio mio, benché doglioso e solo
M’abbi lasciato, io pur mi riconforto,
Perché del corpo ove eri preso o morto
Alteramente sei levato a volo.
Ora le onde del mare buttano davanti a me, su la spiaggia, il tuo corpo bianco, naufrago di un immenso naufragio.
Or vedi insieme l’uno e l’altro polo,
Le stelle vaghe e lor viaggio torto.
E vedi il veder nostro quanto è corto.”
(Alfredo Panzini, Diario sentimentale della Guerra dal maggio 1915 al novembre 1918, Roma-Milano, Mondadori, 1924.
Anche in Panzini, dunque, l’immagine del mare, della sponda del mare: confine fra il finito e l’infinito. Confine sul quale i due amici, il naufrago e il superstite, s’incontrano ancora una volta, in un ultimo, indecifrabile incontro.
Le reminescenze culturali, che ad ogni passo riaffiorano in Panzini, qualche volta in luce un po’ sospetta (di surrogato, in luogo di sentimento vero e profondo; di meccanismo un poco artificioso, in luogo di genuina ispirazione), qui sono tutt’uno con l’uomo Panzini.
Altra volta, la fissità dolcemente ed autenticamente ossessiva di un volto e di un sorriso, il volto e il sorriso del giovane amico che non tornerà più (ed è di quel giorno la notizia), viene accostata a uno scenario marino che non è nuovo a Panzini, e che viene richiamato a svolgere un suo ruolo simbolico, di infinito spazio e di infinito tempo, con una operazione di tecnica letteraria che sa un poco di artificio:
“(…) Io ho avuto tutta la notte l’imagine di lui accanto, con l’enigmatico sorriso quasi infantile, all’angolo delle labbra sbarbate, mentre le stelle dell’orsa nella notte precipitano sul mare.”
(Alfredo Panzini, Diario sentimentale della Guerra dal maggio 1915 al novembre 1918, Roma-Milano, Mondadori, 1924.
Il precedente è nel Diario Sentimentale, I, pp. 51-52: “Che strana sensazione vedere quelle mirabili stelle in altra zona del cielo da quella dove le lasciammo la sera, e tutte precipiti giù, col timone fino a toccare il mare!”
Una felice, nuova immagine ispirata al mare, ed applicata a Serra, compare in un articolo che Panzini scrive per “Il Secolo” di Milano del 28 novembre 1915, dal titolo “In morte di un eroe”. Panzini sta segnalando il numero de “La Voce” che De Robertis e gli amici fiorentini hanno dedicato a Renato Serra nell’ottobre di quell’anno. E annota:
“(…) Qua e là, qualche apparizione o spunto polemico che non vanno sul conto di Renato Serra, il quale aveva già nella sua giovinezza oltrepassato questa zona un po’ spumosa e procellosa presso le rive, per tendere verso più profondo mare, dove l’onda non rompe.”
Alfredo Panzini, In morte di un eroe, in “Il Secolo”, 28.11.1915
Ancora il mare/simbolo, fra Panzini e Serra, in altra pagina di Panzini: la prefazione a La Madonna di Mamà, Romanzo del tempo della guerra, apparso nel 1916: prefazione dedicata a Renato Serra:
“(…) Ora, quest’agosto, a Belluria, aprivo la finestra prima che si levasse il sole. / La finestra dà sul mare verso l’oriente: tutto il ricamo delle stelle ardeva ancora; poi quella luce azzurra schiariva; poi la palpebra del sole si apriva. Un’ebbrezza sino alle lacrime: e su le acque, senza più vele, mi pareva di vedere la nave dei liberati dalla schiavitù d’Egitto. Un mio piccolo fanciullo, che già tempo sollazzava su questa spiaggia, era con te, o Renato; la cara madre mia era con te in quella nave. E non sentivo tristezza per i morti, né inerzia. Avevo l’impressione di essere come il fringuello cieco, che pur disperatamente canta.
Alfredo Panzini, La Madonna di Mamà. Romanzo del tempo della guerra, Milano, Treves, 1916.
(…)
Nella novella L’orologio di San Pasquale, a Panzini che ripercorre, al chiaro di luna, il sentiero “che corre diritto e lungo fra le due siepi di biancospino”, dalla casa rossa alla via Romea, lo stesso sentiero, cioè, lungo il quale Panzini aveva accompagnato Serra per l’ultima volta, in una sera del settembre del 1914, così appare, o sembra apparire, l’ombra di Serra:
“(…) Bianco, grande davanti a me mi pareva di vedere Renato Serra. E la sua faccia era bianca, e le sue mani erano bianche, e le sue parole spiravano bianchezza di purità, e quasi bagliore di profezia.”
Alfredo Panzini, L’orologio di San Pasquale (novella), in “La Lettura”, Milano, a. XXI, n.7 (1 luglio 1921).
(…)
* Estratto dalla rivista d’illustrazione romagnola “La Piè”, n.2 1982
Claudio Varese
L’ampio saggio di Claudio Varese (1909-2002) del 1951 segna l’inizio di una nuova e fortunata interpretazione dell’opera panziniana. Infatti, parallela alla denigrazione assoluta della scuola critica marxista, si svilupperà la rilettura, sociologica prima ancora che letteraria, del suo lavoro come “documento della cultura e del costume” della società italiana del primo Novecento.
La fortuna editoriale del Panzini, secondo Varese, si deve alla sua contiguità psicologica e morale con l’italiano piccolo borghese, il quale vedeva crollare, sotto il peso degli sconvolgimenti economici, culturali e politici del mondo moderno, tutte le sue certezze. Una classe che per questo si sentiva estranea al suo tempo, spettatrice impotente della fine del proprio mondo, che inconsciamente credeva eterno. Questa indole di testimone passivo fa si che il commento, l’analisi e l’annotazione, attraverso cui Panzini manifesta il suo disgusto nei confronti di una realtà meschina ed intollerabile, siano le forme predominanti della sua narrativa. La letteratura costituisce per Panzini, che Varese non a caso definisce “umanistico postillatore della vita”, l’estremo argine per proteggersi dalla volgarità della modernità.
“L’opera di Alfredo Panzini non va considerata soltanto nel suo valore artistico, ma insieme come documento della cultura e del costume italiano. La letteratura, il culto delle umane lettere, l’abitudine a pensare, richiamandosi continuamente alla scuola e ai classici, in un giuoco continuo di confronti, accompagnano sempre lo scrittore: per certi aspetti, il Panzini può venire considerato come un rappresentante della mentalità della piccola borghesia umanistica italiana; l’atteggiamento morale e la psicologia dell’autore risentono dei limiti di quella cultura, e nei momenti peggiori si rispecchiano nel temperamento e nella individualità dell’uomo i difetti di tutta una classe. Nelle pagine felici, nel suo valore artistico, il Panzini, come ogni vero poeta, comunque si sia formato, non rappresenta che valori artistici, e non può esser risolta nei suoi termini storici, se non per essere meglio inteso. Ma la sua opera ha anche un significato politico e storico, perché egli ha osato confessare e ha voluto allargare, i dubbi e le incertezze che incrinavano la vita sociale e civile, culturale e morale dell’Italia: con le sue pagine di continua postilla, dal 1894 al 1937, ha commentato la vita italiana; molti scrittori, come molti uomini politici si rinchiudono dentro un’epoca in cui è fiorito il meglio della loro vita, come quelle donne, che essendo state una volta belle ed eleganti, insistono in una certa acconciatura, in una certa pettinatura, credendo così di continuare se stesse: e il Panzini, sebbene provenga non solo dalla scuola del Carducci, ma anche da quella che potremmo chiamare civiltà carducciana, ha saputo adottare i suoi commenti ai vari periodi, con il duttile spirito di un contemporaneo; anzi, il biasimo e il rimbrottio con il quale colpisce le mode e le tendenze, si esprimono in una forma letteraria e morale, che proprio di quelle e di quelle tendenze viene a partecipare. Se è da intendere con cautela, la derivazione dal Carducci scrittore e letterato, meglio si giustifica la derivazione dal Carducci uomo politico, dal Carducci uomo. Vi era nel Carducci il germe di quello scetticismo, che verrà poi a svilupparsi nel Panzini, come del resto il Panzini stesso ci racconta e dimostra nel suo saggio sopra l’evoluzione politica dalla repubblica alla monarchia, e si addentra nello stesso tempo nell’intreccio, si potrebbe dire, di tutti i problemi politici, economici, sociali, morali, contemporanei. Il Carducci vi appare come figura ideale: la cultura classica, latina, greca e italiana, il culto degli eroi, il disprezzo per la moltitudine, l’orgoglio di una dignità morale fatta della coscienza di questo disprezzo, l’aborrimento del lusso e della vita economica, l’insofferenza tipicamente carducciana per l’arte contemporanea, per il teatro, per il mondo contemporaneo, vengano esaltate a legge.
Il Panzini porta in se la nostalgia di due mondi fra di loro nemici, amati da lui dell’amore che si ha per il passato, dove anche i contrasti più facilmente si conciliano, il mondo tradizionale e cattolico della vita patriarcale, e il mondo del partito repubblicano storico. Il Panzini delinea una forma di repubblicanesimo classico, aristocratico, che può armonizzare con le forme ideali della virtù, della patria e della religione; di questi repubblicani classici il Panzini parlerà ancora volentieri nel Libro dei morti, ed esaltandoli, nella Vera istoria dei tre colori. Dal fastidio carducciano per la vil maggioranza, il Panzini deduce anche un atteggiamento politico, con il suo presente buon senso letterario. Il mondo moderno è un mondo gretto e corrotto, piccolo nelle idee e materiale e meschino nelle aspirazioni. Come il Carducci, anche il Panzini pensa però che questo mondo positivo, questo mondo piccolo e senza ideali, è il vero mondo del presente e ancor più dell’avvenire: il Carducci lo riconosce, ma se ne sdegna e vi tempesta contro; il Panzini invece vela il suo sdegno di quella malinconia e di quella amarezza riflessiva e ripiegata, che sarà poi sua caratteristica. Veramente, dal Carducci Panzini ha imparato il senso un po’ astratto dell’ideale e immobile perfezione della vita, una concezione politica apparentemente profonda e comprensiva, ma in realtà ingenua, un atteggiamento di sfiducia, di diffidenza e insieme di rassegnazione verso la vita contemporanea. Da questo, i due motivi che risuoneranno spesso e a lungo nell’opera panziniana, lo sgomento per l’intensità della vita economica contemporanea, il rimpianto per la serena, per l’aurea mediocrità della vita del passato.
[…] Di questa tendenza a valersi della lingua con tutte le libertà di un romantico, ma nel gioco di una disciplina classica, il Panzini si è sempre dimostrato consapevole: nella tendenza a un suo originale stile maccheronico, egli porta non solo la sua cultura e i suoi amori di letterato, ma anche il suo atteggiamento morale, la curiosità sempre desta di ogni particolare, di ogni fremito, e insieme l’amore e la venerazione, e la confidenza con il mondo classico.
[…] Il primo romanzo del Panzini, Il libro dei morti, deriva la sua ispirazione da questa educazione, da questa cultura del tempo bolognese e, in questo senso, sembra un commento narrativo alla Evoluzione politica di Giosuè Carducci. Anche qui il sentimento di ammirazione per il repubblicanesimo classico ed eroico, rappresentato dal dottore, si esterna con la nostalgia del vecchio mondo, dell’antico regime con il biasimo del nuovo moderno. Le idealità, le care abitudini della vita patriarcali sono minacciate e travolte: le tasse, l’inquietudine di novità, la smania di piaceri e di soddisfazioni malsane e non ragionevoli, minacciano quella semplice vita. Il libro si chiama Il libro dei morti, perché tutto il disteso racconto di questa vita e serena, è inquadrato nel ricordo che ne serba l’anima di Gian Giacomo, semplice e saggio proprietario della campagna di Rimini, il quale vorrebbe, dopo morte, tornare dal figlio e ammonirlo che tutti gli ideali, tutte le speranze di quella vita morale e religiosa, sono false; ma poi vedendo quanto serena, quanto mite e pura è la vita del figlio, il quale crede alla virtù e alla religione, non osa appannarne lo spirito, e si ritira. Questi motivi dell’esaltazione della vita semplice e modesta, che ricorreranno poi in tutta l’opera del Panzini sono qui nella forma più ingenua: «Le tenebre montano, ma il lumicino della Madonna arde come un faro, e la buona madre sorride più dolce in quel raccoglimento silenzioso della sera». L’amarezza dello scetticismo morale, quella polemica contro l’idea del progresso –basta rammentare quel che dirà nel Diario di guerra- è già cominciata in questo libro, anzi è qui naturalmente più esplicita e più ingenua. Il dialogo fra il notaio, che vuole il progresso, il lusso, la ricchezza, la sensualità, e il proprietario agricolo Gian Giacomo, che vuole la serenità, la semplicità, la virtù, la famiglia, ritorna infinite volte nell’opera del Panzini: la ripugnanza e insieme l’accettazione del darwinismo, dell’evoluzionismo, delle forme del positivismo, è entrata nella formazione dello scrittore, il quale vi si fermerà, anche i problemi saranno spostati.
[…] Una tendenza del gusto panziniano, o piuttosto del suo mondo morale, è quella di introdurre e di contrapporre il poetico, il letterario in contrasto con la vita, con la realtà; di questo contrasto è costruita spesso e volentieri la sua opera, non soltanto in senso morale e psicologico, ma anche in senso letterario, come se questa giustapposizione o contrasto corrisponda a una giustapposizione o contrasto di brani e forme poetiche con brani e forme realistici, quotidiani e sciatti.
[…] La critica ha ammirato e amato quella prosa linda e profumata di spigonardo: quella precisione e quella movenza elegante del periodo; dirò di più, che nell’ammirazione di critici come il Cecchi o il Borgese, si rifletteva anche naturalmente il loro gusto e la loro esigenza. Il Cecchi, allora giovanissimo, e già critico molto acuto, ammirava nel Panzini quegli stessi elementi astrattamente presi, che si trovano in lui, la snellezza dei periodi,e, in un certo senso, delle parole, e una certa indulgenza a quel tono crepuscolare, che s’incontra fra gli altri toni nel Panzini. Per questo tono, il Cecchi preferiva fra tutte le Fiabe della virtù, il Padre e il figlio. Questi critici trovarono risolti nel Panzini, soprattutto in questo Panzini, alcuni dei problemi che li tormentavano: il rapporto fra la prosa tradizionale, come poteva esser rappresentata anche dal Carducci, e la prosa contemporanea con le esigenze della modernità; il riflesso della vita contemporanea nella letteratura narrativa e le forme di quella malinconia, di quel senso evasivo di crisi, che era di quella letteratura. D’altra parte, la soluzione che ne dava il Panzini era tale da essere ammirata piuttosto che imitata o biasimata come un’inframmettenza o uno sbaglio.
[…] Il bacio di Lesbia ha una sua facilità letteraria: il Panzini ama la citazione, anzi, la citazione è per lui sempre più elemento essenziale della sua maniera letteraria e libri come questi, La sventurata Irminda gozziana e Il bacio di Lesbia, sono intessuti e appoggiati alle citazioni: l’autore continuamente traduce Catullo ed a Catullo si riferisce. Tutti gli amori e i gusti morali panziniani ritornano in questo libro, dove Catullo sembra in certi momenti lo stesso Panzini e d’altra parte Augusto e Cesare sono idoleggiati con quella simpatia e venerazione per gli eroi che è tanto caratteristica. Le ultime opere del Panzini riflettono, come staccate, i motivi della sua formazione, non soltanto nell’aspetto letterario, ma anche in quello etico. Vengono in mente, per contrasto, le parole estreme, inesatte in sede estetica e letteraria, ma moralmente così calzanti, di Alessandro Manzoni al giovane Coen, desideroso di darsi alle lettere. Quante ci imbattiamo, leggendo questo nostro autore, in quella falsità o piuttosto inconsistenza umana, che un certo modo di studiare le lettere può favorire, in quel passaggio arbitrario e facilmente seducente dalla letteratura alla vita, in quell’abbandono evasivo e nostalgico alle immagini di un passato brillante. I ricordi della letteratura, non solo diventano occasioni di patetica nostalgia, e vagheggiamenti di forme perfette, non solo entrano nell’impasto maccheronico del suo linguaggio, ma diventano l’armatura della sua personalità morale, il contenuto della sua ideologia facilmente conservatrice. In questo senso il Panzini è stato simile al D’Annunzio; e l’uno in tono maggiore, l’altro in tono minore, ma non per questo meno significativo, sono stati espressione e insieme stimolo della crisi del mondo italiano tra l’Ottocento e il Novecento; molti aspetti di larghi ceti colti italiani si riflettono nelle pagine del Panzini, nelle sue diffidenze, nei suoi timori, nella sua mancanza di un’opinione che non sia un risentimento o una nostalgia. Non cattolico, si è sempre compiaciuto, con estetismo sentimentale, della religione cattolica. In Il ritorno di Bertoldo, l’autore, al termine della sua opera, riprende i suoi vecchi motivi: da una parte la letteratura, dall’altra la campagna, quella campagna panziniana, che è un misto di Arcadia e di Folengo. Per spiegare le ragioni del suo amore alla terra, quanti nomi, quante citazioni: gli Idilli di Teocrito, Virgilio, Tetrarca, Esiodo, Ulisse, Kipling, Cicerone; Freud!
Riappaiono in questa conclusione, in questo epilogo un po’ estrinseco, tanti elementi della sua maniera: come il Leopardi nella Canzone ad Angelo Maj vede sfilare i grandi scrittori italiani, così, ma con molta più letteraria intenzione, il Panzini vede passare gli scrittori che dicono le frasi adatte alle circostanze e commentano le situazioni con loro situazioni: l’Ariosto con la sua casetta, il Manzoni con il bel paesaggio della sua giovinezza e la villa paterna sulla riva di quel lago “da cui l’Adda sempre si muove”, e Giovanni Pascoli con la Badia di Pomposa. Ci son dei capitoli che hanno proprio l’aria del vocabolario nomenclatore, di più facile vocabolario: perché, nonostante le citazioni, il Panzini appartiene, come il D’Annunzio, a quegli scrittori che hanno dato agli italiani l’idea di capire delle cose difficili: niente è più pericoloso di una forma che, sembrando difficile, sia in realtà facile, rapida e orecchiabile.
[…] Con i suoi umori, con le sue inclinazioni letterarie e morali, con le sua antipatie e simpatie politiche, egli ha accompagnato le onde che si muovevano alla superficie della vita italiana, di una certa vita italiana. Curzio Malaparte, che ha agitato clamorosamente, non dico gli ideali, ma i motivi dell’Italia saggia, sana, tradizionale, paesana, anzi strapaesana, riconosceva –ed è un riconoscimento molto significativo- questo aspetto del Panzini: nell’Italia barbara si legge: «Quel che fa di Panzini un italiano in sommo grado rappresentativo fra i contemporanei e quasi la maschera della crisi o trasformazione (o commedia) che il nostro comune spirito nazionale oggi attraversa, è appunto questo motivo drammaticissimo dello stupore, il quale assume in lui, attore-tipo, gli aspetti più diversi e significativi ….. »