Alfredo Panzini nasce a Senigallia, nella parrocchia del Duomo, in via Fratelli Bandiera 2, il 31 dicembre 1863, alle 7 e un quarto del mattino. L’amico Antonio Baldini scrisse che era “per la civetteria di calarsi non un anno ma cinque minuti”, che Panzini dichiarava (lo si legge in Ricordo campagnolo di Panzini, in “Nuova Antologia” del 16 aprile 1939) “d’essere venuto al mondo poco prima che scoccasse l’ultimo dì di quell’anno”.
La famiglia
Il padre è il dottor Emilio Panzini (del vivo Vincenzo) e la madre è Filomena Santini (figlia del dottor Ippolito), come risulta dal registro dei battesimi conservato nel Duomo. I genitori sono detti di S. Lorenzo in Strada nel riminese. E siccome questa località passò al Comune di Riccione in occasione del “distacco” da Rimini, qualcuno parlò di un Panzini riccionese (Arnaldo Bueri in occasione della giornata panziniana che si tenne a Rimini il 29 luglio 1951: “Panzini è di Riccione pur essendo nato a Senigallia”). Invece la famiglia Panzini può essere considerata riminese a tutti gli effetti, così come lo era la nonna paterna di Alfredo, Costanza Bilancioni. Il padre nacque e visse a lungo a Rimini e il fratello di Alfredo, Ugo, impiegato comunale, suonò la cornetta nella banda comunale di Rimini. La famiglia della madre, pur trasferita nelle Marche, era di origine romagnola.
Nascita e infanzia
Alfredo Panzini nasce a Senigallia per puro caso (“Io sono nato, così per combinazione, in una città che non è lontana dalla Madonna di Loreto”, in: Viaggio con la giovane ebrea, 1935) quando la madre si trovava a trascorrere il Natale dai genitori in avanzato stato di gravidanza. E conserva della città marchigiana un flebile ricordo: accennando ad un suo passaggio in bicicletta attraverso Senigallia addormentata, Panzini scrive Nella terra dei santi e dei poeti (1898), di ricordarsi di esservi nato soltanto quando gli accadeva di dover annotare sulla carta bollata anche il luogo di nascita.
L’infanzia Alfredo Panzini la trascorre a Rimini. Ha dieci anni quando viene iscritto al ginnasio comunale, che lascia subito per trasferirsi (grazie alle raccomandazioni di un segretario di prefettura) al collegio Marco Foscarini di Venezia dove completa il liceo, rimanendoci dal 1875 fino al 1882. In un quaderno di quegli anni annota: “Alfredo Panzini Riminese, 1881”. In un saggio delle prose scritto in collegio, definisce Rimini “la mia cittadella natia”.
Secondo Luigi Russo, Alfredo Panzini fu “romagnolo e riminese per educazione fantastica e morale, per tutta la particolare tenerezza e scontrosità della sua arte e dei suoi sogni di poeta”.
La famiglia Panzini abita nel Borgo S. Giuliano e il ricordo di questa età della sua vita dev’essere particolarmente caro ad Alfredo che lo rievoca con tratti poetici in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 20 agosto 1928.
I pescatori e il mare accompagnano sempre lo scrittore e tante sono le citazioni al riguardo. Nella Lanterna di Diogene scrive di augurarsi di riposare un giorno nelle “glebe natie” (nei pressi del Rubicone), per “udire ancora il murmure del mare”. E a Canonica di Santarcangelo, vicino ai suoi poderi, scelse il luogo della sua sepoltura, a fianco della moglie Clelia.
Panzini e Rimini: amore e odio
Il rapporto di Panzini con Rimini è molto contrastato. Non mancano giudizi sprezzanti. Nella Terra dei santi e dei poeti parla dell’accoglienza ricevuta da una signora di Rimini: “Ma per quanto fossero cortesi, io non posso serbare grata memoria di queste signore, perché esse, credendo forse di farmi cosa grata, rievocarono antichi ricordi della mia famiglia e della mia prima gioventù: io credevo di averli sepolti, ma essi sanguinano ancora. Vi sono piaghe nella vita che solo il falegname quando adatta i chiodi alla cassa potrà chiudere. Non altri.” Nelle Considerazioni di un paterfamilias (1904) e ne Le avventure di un paterfamilias (1911) ci sono due giudizi assai diversi: mentre nel primo parla di un suo figlio “allevato dalla buona nonna in terra di Romagna”, nel secondo scrive: “E’ stato allevato dalla nonna in quella trista città lontana e maligna”. Lontana perché nel frattempo i Panzini si erano trasferiti a Milano. Ancora più duro quanto scrive a Renato Serra nel 1913: “Per non vedere l’orrida Rimini sono passato per Ravenna”, e nel 1914: “In quell’anno (1912) attraversai una delle crisi più spaventose della mia vita. E’ l’anno in cui perdetti mamà. Quell’anno di crisi ha lasciato dei postumi. L’odio implacabile verso Rimini. Dunque se deve dire di dove sono non dica di Rimini. Sarebbe anche errato. Io sono nato a Senigallia da genitori romagnoli”. E nel P.S.: “Aggiungo: non di Rimini, non cavaliere, non massone, di nessun partito, nulla!”
Ma sarebbe sbagliato ritenere che l’odio per Rimini fosse legato alla morte della madre, che risale al 1912, mentre Panzini esprime la sua avversione per questa città già anni prima. Probabilmente giocano un ruolo importante altri aspetti legati ad alcune disavventure riminesi della famiglia Panzini: il dottor Emilio dissipa gran parte del suo patrimonio (diversi poderi intorno a Rimini) a causa di perdite al gioco e di una notoria incapacità nell’amministrare i suoi averi. Lo stesso Alfredo Panzini reagì con un duello alla sciabola ad un articolo ingeneroso scritto da Quintino Quagliati, archeologo, su un settimanale estivo riminese. Fra l’altro Panzini riportò anche una ferita, seppure non grave. Fulminante, ma spassoso (sembra di vederlo il sacerdote in questione, al secolo don Ugo Maccolini, parroco dei Servi), quanto scrive di un prete di Rimini nella Madonna di mamà (1916): “Il pretino occhialuto, fine come la polvere, raso come la seta, soave come il miele, che si aggirava con ugual sveltezza tanto tra i banchi delle Banche come tra gli altari e i tabernacoli”, che “con grande dovizia aveva accumulato con una sua ingegnosa combinazione finanziaria per alleviare le pene dei poveri morti che stanno in purgatorio. Così che… aveva potuto indorare tutte le Madonne ed i Santi della sua chiesa, fare molte opere di beneficenza ai vivi, ed essere arbitro delle elezioni nella città”.
Ma è pur vero che la moglie Clelia dirà che le parole ruvide di Panzini per Rimini furono “come l’odio per l’innamorata, perché veramente nel suo intimo egli amò intensamente la sua città”. Panzini stesso scriverà parole di autentico amore verso Rimini, come nell’articolo per il Corriere della Sera del 31 maggio 1927: “Rimini bellissima fra i verdeggianti colli e l’arco lunato del luminoso Adriatico”. Rapporto contrastato di amore e odio, Panzini intrattiene anche con Bellaria (si veda la sezione “Panzini e Bellaria” in questo sito) ma Carlo Bo ha sostenuto, a ragione, che “Bellaria è stata la patria vera – quella che l’amore ha saputo correggere nel segno della terra d’origine – dello scrittore”.
Alla Biblioteca di Rimini sono legate due opere di Panzini, Legione decima, nella quale confluirono i risultati del confronto e dei suggerimenti del bibliotecario della Gambalunghiana, prof. Carlo Lucchesi, e Il bacio di Lesbia, che lo stesso Lucchesi disse essere nato alla Gambalunghiana. E nell’albo dei visitatori è rimasta traccia della visita di Panzini, il 19 luglio 1931, insieme alla moglie, a Milena Bruers e a Pietro Franciosi di San Marino. L’occasione della visita a Rimini fu una mostra alla quale esponeva la moglie Clelia (ed anche il pittore di Verucchio Edoardo Pazzini).
All’Ateneo di Bologna
Alfredo Panzini frequenta l’ateneo di Bologna dal 1882 al 1886, dove è allievo di Carducci e Acri. Nel primo vede e ammira l'”ultimo dei classici”. Qui conosce Giovanni Pascoli. Il poeta sammaurese pubblica nel 1902 La bicicletta di Ninì (nell’antologia “Sul limitare”), “dovuta all’ingegno schiettissimo di un giovane”, “un romagnolo bravo sul serio”, dirà Pascoli di Alfredo Panzini scrivendo all’amico Giuseppe Gori.
Le nozze e i figli
Sposa a Parma Clelia Gabrielli nel luglio del 1890. Dalla loro unione nascono quattro figli: Umberto (morirà nel 1910 a soli dieci anni e a lui Panzini dedica le Fiabe della virtù), Emilio, Pietro (anche se da tutti sarà chiamato Piero) e Matilde, detta Tittì. Dietro quell’aria professorale e seriosa, si nasconde un padre affettuoso e un uomo che non ama gli orpelli, che sa ridere della vita e delle cose semplici. Durante il viaggio in bicicletta da Milano a Bellaria, scrive una serie di cartoline alla famiglia, che mettono in luce proprio questo aspetto della personalità di Panzini. In una di queste, datata Dogana Nuova (Modena) 15 luglio 1905, scrive al figlio Emilio che “per non rompersi l’osso del collo” scendendo da Borigazzo, a 1320 metri, a Pievepelago, m. 720, “ho attaccato alla bicicletta una fascina e due macigni, legati ad una corda. Così sono sceso e come vedi non mi sono rotto il collo. Anzi sto molto bene e lo dirai a mamà. La gente vedendomi scendere a quel modo, levando dietro un nuvolo di polvere, mi ammirava (compreso i cani) più che per i miei libri: ed anche ciò dillo a mamà. Qui giunto ho fatto un bagno in un torrente gelato!! E’ stato delizioso. Pensa: tu non ti vuoi lavare!! Dopo andai a pranzo e mi hanno servito, come da tempo immemorabile, non ricordo. Ora mangio delle eccellenti fragole”.
Professore liceale e scrittore di successo
Dal 1886 Panzini è insegnante nei ginnasi di Castellamare di Stabia e di Imola, al Parini (1888-1897), al Politecnico di Milano (1897-1917) e a Roma (1918-1924).
I suoi primi lavori sono opere di saggistica e traduzioni, ma il primo libro di narrativa Panzini lo pubblica nel 1893 dall’editore Galli di Milano (Il libro dei morti) quando ha già 30 anni. Tre anni dopo, nel 1896 la seconda pubblicazione di racconti, Gli ingenui, e da qui in poi una carriera fulminante. Inizia a collaborare con la prestigiosa “Illustrazione italiana” dell’editore Treves (come chi dicesse oggi Panorama o L’Espresso) alla quale aggiunge “La Vita Internazionale”, la “Nuova antologia”, “La Voce”.
Panzini diventa uno scrittore gettonato prima con La Lanterna di Diogene (1907) e soprattutto con Le Fiabe della virtù, nel 1911. E’ allora che anche i critici cominciano ad occuparsi di lui. “L’uomo nuovo di questo periodo è Panzini”, scrive Giuseppe Prezzolini. Una notorietà (nel 1922 esce “Il padrone sono me” che sancisce l’ormai indiscussa popolarità di Panzini scrittore letto e apprezzato dal grande pubblico) che lo porta a nuove collaborazioni con la carta stampata: “Il Resto del Carlino” (dal 1917), il “Giornale d’Italia” e il “Corriere della Sera”, dove è chiamato da Luigi Albertini nel 1925, continuando a scrivere per il quotidiano milanese tre articoli al mese fino al 1930.
Nel 1929 un altro traguardo: la nomina ad Accademico d’Italia, quando ormai la carriera è ai massimi livelli e i romanzi di Panzini vengono tradotti in molte lingue, non solo europee, e la trasposizione teatrale di Io cerco moglie (1920) va in scena a Parigi.
Oltre alla narrativa e alle opere critiche, Panzini si cimenta anche con la storia (è del 1931 Il Conte di Cavour), scrive antologie scolastiche e cura quell’opera ciclopica che va sotto il nome di Dizionario Moderno: alle varie edizioni lavora per circa 30 anni a partire dal 1905.
Panzini muore nella sua casa romana di via Giuseppe Avezzana il 10 aprile 1939, lunedì di Pasqua e riposa insieme alla moglie nel cimitero di Canonica, nel comune di Santarcangelo.