Dante nel VI centenario

INTRODUZIONE
Nel sesto centenario della morte di Dante, precisamente il 14 settembre 1921, Alfredo Panzini ha voluto ricordare il Sommo Poeta tramite una sua riflessione letteraria. In primo luogo Panzini associa il nome di Roma al nome di Dante. Come Roma antica diede agli uomini le leggi del vivere civile (leggi più o meno buone tra quelle finora scritte) e fu la città degli apostoli Pietro e Paolo, entrambi fondatori della religione di Cristo, così Dante, uomo e poeta, è stato l’unico mortale ad aver compiuto un viaggio nel regno dell’oltretomba. È stato un viaggio fantastico, unico, irripetibile, ricco di significato sul piano politico, religioso ed umano, tradotto in tante lingue nonché incomparabile per bellezza ed originalità. A parere di Panzini, per quanto riguarda le traduzioni in cui si legge l’opera principale di Dante, nelle stesse la Commedia dantesca, chiamata più tardi Divina Commedia, perde la musicalità delle parole, musicalità che solo l’italiano riesce a conservare. Certamente la giovinezza trascorsa a Firenze deve aver
influenzato in modo profondo la sua opera, ma nel contempo è evidente che il temperamento del poeta diviene più incline a ira e collera in seguito alle sofferenze provate nel periodo dell’esilio. In generale durante il suo viaggio ultraterreno Dante mostra una personalità
complessa, perché è capace di pregare e commuoversi dinanzi ad esempi di virtù, ma incapace di non infuriarsi dinanzi a traditori o ladri. Della vita del poeta sappiamo molto poco; le più importanti notizie biografiche inerenti a Dante si trovano nella sua Commedia. Senza dubbio sappiamo che egli fu uomo di carattere austero e di grande onore. Preferì vivere in esilio, nonostante il suo grande amore per Firenze da cui era stato cacciato, piuttosto che venire a patti con la sentenza pronunciata dai suoi nemici e dichiararsi colpevole. Morì a Ravenna a soli cinquantasei anni, il 14 settembre 1321. Quando i fiorentini lo reclamarono da morto e fu aperta la sua tomba, Dante non c’era più. Pare che i frati avessero trafugato il cadavere per nasconderlo altrove. Oggi a Ravenna in quello stesso luogo si trova una piccola cappella dedicata al poeta. Sappiamo che Dante è nato a Firenze, ma della sua casata e dei suoi antenati sappiamo poco. Anche dei genitori di Dante non abbiamo molte notizie: il poeta menziona brevemente la madre tramite Virgilio, che così si esprime: “Benedetta colei che in te si incise”. Un secolo prima che Dante nascesse, un suo antenato era morto combattendo valorosamente alle crociate e l’imperatore lo aveva nominato cavaliere. Dante era orgoglioso di questo antenato, anche se pensava che l’aristocrazia affondasse le sue radici non nel lusso o nello sperpero di ricchezza e vanità, ma in un’austera e dura semplicità. Similmente Panzini, durante la stesura di questa sua breve fatica letteraria, confessa il proprio orgoglio di essere italiano, perché l’Italia è patria non soltanto di Dante, ma anche di altri uomini ugualmente unici per le loro grandi capacità, che si sono mostrate in svariati campi.
Ai tempi di Dante la cultura era appannaggio soltanto della Chiesa e la lingua parlata era chiamata volgare. Ma egli seppe far uscire da questa lingua la più armoniosa lingua che sia mai stata scritta, consacrando così la lingua italiana. Egli fa parlare in questa lingua i personaggi che incontra durante il suo viaggio. La Divina Commedia, forse composta durante il soggiorno ravennate di Dante, è interpretata da Panzini sia come un’opera di contenuto religioso, sia come una fatica letteraria di suprema bellezza ed importanza, perché riflette la teologia medievale. In base a quest’ultima, Dio è al centro della vita dell’uomo e l’individuo,
aiutato dalla grazia divina, deve comportarsi rettamente per giungere a contemplare la luce divina dopo la morte. Quindi il significato del poema dantesco è teologico. Alfredo Panzini ricorda anche che Dante è studiato nelle scuole italiane e si chiede che cosa penserebbe l’Alighieri a vedere folle di allievi che si sforzano di ripetere e spiegare i suoi versi. Non si sa
quale potesse essere il peccato di Dante; si pensa che Dante fosse schiavo di tutti i peccati, perché la “selva oscura” è allegoria del peccato compiuto dall’uomo. Dante ha bisogno di due guide che lo aiutino nel suo viaggio: Virgilio, considerato dalla cultura medievale come un sapiente ed un mago, quindi immagine della ragione umana, e Beatrice, che rappresenta la teologia, cioè la ragione illuminata dalla fede. Infine Alfredo Panzini conclude la sua opera con una rassegna di aneddoti che mettono in luce l’ironia e la saggezza del poeta e con un elenco esplicativo delle altre sue opere, senza dimenticare alcuni rilevanti dettagli sull’Alighieri: “Irremovibile nella fede, patì miseria, esilio, persecuzioni, né mai tradì la riverenza alla Patria, la dignità dell’anima, la credenza nei suoi principi”.

Gabriele Dini

LA SUA SIGNIFICAZIONE
IL NOME DI DANTE

Il nome di Dante è un po’ come quello di Roma: è conosciuto in tutte le parti del mondo.
Roma e Dante sono i due grandi nomi che hanno dato all’Italia, a questa penisoletta così piccola, la maggior rinomanza. Roma antica diede agli uomini le leggi del vivere civile più buone (o meno cattive) che sinora siano state scritte; Roma fu, poi, la città dove gli apostoli Pietro e Paolo fondarono la religione di Cristo: e Dante fu Colui che compì il più gran viaggio che mai sia stato fatto da un uomo mortale, perché andò all’Inferno al Purgatorio e al Paradiso, e ne diede la relazione in versi di tale bellezza che non furono mai superati nella nostra poesia; e questo viaggio è la Commedia, o Divina Commedia, come fu chiamata più tardi.
E la ragione perché quei versi non furono mai superati in bellezza, è perché, dopo Dante, non è venuto nessun altro che al pari di lui sentisse, cioè soffrisse, con tanto sentimento. Sono versi semplici e insieme magnifici: un canto naturale!
Ma questo viaggio per l’inferno, il purgatorio, il paradiso – voi dite – è fantastico!
Nessuno ne dubita! Ma soltanto gli sciocchi ne possono sorridere, mentre le persone capaci di pensare, ci trovano grandi significazioni.
Ma di questo si parlerà più avanti.

Roma e Dante, come si vede, sono stati bene internazionali, e molto tempo prima che questa parola diventasse tanto di moda!
Vi sono stati cittadini di nazioni orgogliose, come l’Inghilterra e la Germania, i quali hanno studiato l’italiano per poter capire Dante; vi sono uomini superbi di altre nazioni, i quali per noi italiani hanno una stima piuttosto limitata, ma quando nòminiamo Dante, devono abbassare la testa!
Se poi si pensa che l’Italia è stata la madre non soltanto di Dante, ma di altri uomini unici nel mondo, per lo splendore dell’ingegno e insieme per una incompàrabile bontà, bisogna ammettere che la nostra
patria, pure essendo stata assai infelice nella sua storia politica, è stata assai privilegiata nei suoi grandi figli.

Si deve poi tener conto di questo fatto molto importante, che Dante, tradotto nelle lingue forestiere, perde molto della sua bellezza.
Perché? E’ una cosa di troppo lunga spiegazione. Diciamo così: è il mistero della parola. Essa ha una virtù non soltanto per la cosa che significa, ma anche per una sua musica, che mette come in rivoluzione il cervello, in quanto vi fa nascere fantasmi più o meno magnifici (qualche volta anche tremendi!) secondo la capacità del cervello di chi legge.
La musica delle parole è un po’ come la musica delle note; ma non tutti la possono gustare.
Come volete mai dire in tedesco, in inglese, in francese: “Amore e cor gentile sono una cosa”? Bisogna dirla in italiano.

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Ci fu una volta un nobilissimo italiano, Giuseppe Mazzini, il quale sentì la necessità di far capire al popolo dei nostri operai che cosa è l’Italia.
Badiamo bene che si tratta di un ottanta anni fa, quando l’Italia era sotto il dominio degli Austriaci, e Giuseppe Mazzini voleva che il popolo italiano acquistasse una dignità civile, un senso dell’onore  nazionale! Ebbene che cosa fece? Parlò a loro di Dante! E ci fu un superbo inglese, il quale, nei tempi in cui l’Italia era trattata come una specie di cimitero, disse ben forte che un paese che aveva Dante, non
poteva morire, ma sarebbe risorto.

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Come si vede da queste poche parole, Dante fu un certo uomo che movendosi giù per la storia, venne a riunire intorno a sé molta storia, e acquistò un aspetto leggendario, quasi di gigantesca statura, e di profeta d’Italia.
E le persone dotte fanno un gran ragionare se Dante si deve studiare per quello che egli fu realmente, nella sua vita di uomo, – anche con le sue debolezze, supponiamo anche con i suoi debiti, come un uomo
qualsiasi – oppure con tutta questa storia e queste sublimi significazioni che si sono formate attorno a lui. Così, per fare un paragone: c’è chi guarda il mare azzurro e prova una commozione profonda; c’è chi lo guarda in modo diverso, e vi fa osservare che non è nemmeno azzurro! “Cioè, è azzurro per effetto di una illusione degli occhi, ma si tratta di acqua, con molteplici sali disciolti, fra cui in copia il cloruro di sodio, e sostanze organiche; e la formula chimica del mare è: H2O, NaCl.”. Ma il mare, signor fisico, è anche uno
smisurato talamo nuziale, dove si genera tanta vita! E questa cosa la capirono gli antichi, quando immaginarono che Venere, la dea dell’amore e della vita, nascesse dalle spume del mare!
E nel caso di Dante si può dire così: “Sì, signori dotti, Dante è un uomo come un altro, è un poeta che ha scritto bellissimi versi; ma Dante rappresenta anche lo sforzo eroico ed incessante verso una purificazione sublime. E se noi del secolo ventesimo non la possiamo sentire ne comprendere la storia tragica di quella purificazione, che colpa ne ha Dante? “

 CARATTERE DI DANTE E LA SUA TOMBA IN RAVENNA

Ma c’è una cosa molto curiosa e strana! Della stessa vita di Dante, come uomo, noi sappiamo pochissimo, e per quanto in questi ultimi tempi gli studiosi si siano messi a cercare fra le carte più polverose per scoprire di più, ne sappiamo sempre molto poco.
Possiamo ben dire che le notizie più interessanti della sua vita sono sempre quelle che a lui è piaciuto di lasciarci nella sua Divina Commedia.
Questa oscurità intorno alla vita di Dante non è cosa solo di lui, ma di altri uomini eccezionali, come Cristo, Omero, Shakespeare, quasi allo scopo (bellissimo del resto), di deludere un po’ la curiosità degli uomini, e far capire che dei grandi intelletti quello che più ha valore sono le immortali opere, e non la fuggevole vita.

Tuttavia quel poco che si sa di lui è bastevole per darci l’idea di un uomo straordinari anche nella vita comune, in questo senso che egli fu eroe non soltanto negli scritti e nelle parole, ma pur nelle azioni, a costo anche di molte sofferenze; e fu uomo di austero carattere e di alto onore.
Certo egli non dovette essere troppo gentile benché avesse una gran gentilezza di sentimenti; anzi altero, sgarbato, duro, come sono le linee del suo volto.
Presuntuoso e schifo e isdegnoso, e mal grazioso”, lo chiama un suo contemporaneo, – che era suo avversario politico, – e che “mal sapeva conversare con le persone non istruite”. Insomma non fu come sono tanti, che negli affari del mondo vengono ad accomodamenti e si adattano.
Egli non si adattò mai, e preferì vivere in esilio, povero e ramingo, piuttosto che compiere un’azione che alla sua coscienza sembrasse vile.
E la più bella prova è questa, che egli, che tanto amava la sua Firenze e ne era stato cacciato in forza di una sentenza (1302 ) altrettanto iniqua quanto terribile, (perché gli erano stati confiscati i beni ed era stato condannato ad essere bruciato vivo se fosse venuto in podestà del Comune), rifiutò, dopo quindici anni di esiglio, di essere amnistiato, perché lo si obbligava a fare atti di umiliazione e dichiararsi colpevole, mentre colpevoli erano i suoi concittadini, i suoi giudici. E così seguitò ancora a vivere in esiglio!
Non è questa la via – egli scrisse – di tornare in patria!
E così egli morì in esiglio nella non vecchia età di cinquantasei anni, il dì di Santa Croce, cioè il 14 settembre dell’anno 1321, nella città di Ravenna, che allora era, dopo Roma, la più bella d’Italia.
Non si pretende con questo che tutti gli uomini debbano essere come Dante, perché in tal caso non sarebbe più il nostro mondo; ma insomma è un grande esemplare, un po’ come Cristo, (considerato come uomo) che prese lui la croce e la portò per tutti gli uomini cattivi.
Il Principe poi della città di Ravenna, riconoscendo Dante per uomo che faceva onore agli uomini, gli diede onorata sepoltura, e in abito di poeta lo fece deporre in una gran tomba di marmo davanti alla porta del convento dei frati di quel San Francesco per cui Dante aveva avuto tanta venerazione. Questa gran tomba rimase lì per molto tempo, anzi i fiorentini che non avevano voluto Dante da vivo, lo reclamarono da morto, ma quando fu aperta la tomba, non c’era più. Pare che i frati, di nascosto, trafugassero il cadavere e lo nascondessero altrove.
In questi ultimi tempi (1865), dentro un vecchio muro si sono trovati i resti mortali di un uomo, che si assicura essere Dante, e sarà benissimo: ma è curiosa cosa come un’aria di mistero così circondi la sua morte, come circondò la sua vita.
Oggi poi in Ravenna, in quel luogo ove era la tomba, si trova una specie di cappelletta come
quella pei santi.
La gente del luogo vi passa indifferente, ma qualcuno, specie i forestieri, si ferma e vede dentro una lampadina con un lumino acceso notte e dì, come pei santi.
E’ una specie di religione di alcuni italiani, giacchè il nome di Dante vuol dire come Italia. Ma bisogna intenderci, e ne diremo qualcosa più avanti.

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Quasi interessante come quel tempietto, sono in Ravenna certe strade vecchie e sudicie, e anche malfamate, che portano vecchi nomi che ricordano Dante, i figliuoli di Dante e i Signori di Ravenna al tempo di Dante. E in mezzo a quelle miserie di case e di gente, vi sono templi bizantini di una bellezza unica al mondo, con visioni di azzurro e oro nei mosaici: Cristo, pecore pascenti, Santi, Sante e simboli meravigliosi: tutte cose che Dante vide!
E attorno a Ravenna vi sono gli avanzi massacrati di quello che un tempo era un pineto grandissimo, lungo l’azzurro mare, così bello quel pineto che Dante lo chiamò: “la divina foresta spessa e viva”.

Dante si aggirò per quella selva, chi sa quali cose pensando!
Perché durante il suo esiglio per tutte le parti d’Italia, fu certo in Ravenna dove trovò maggior pace, tanto che quivi fece venire i figliuoli e le figliuole, una delle quali si fece monaca, e morì poi in Ravenna.
Ora appunto, perché col 14 di settembre, 1921, sono compiuti sei secoli da che Dante morì, si celebra il sesto centenario. Una cerimonia, se volete, ma che ha pure un suo grande significato, specie in questi tempi, perché vuol dire che l’Italia non vuole, non vuole morire! E onorando questo gran morto, l’Italia onora la Sua vita.

LA MADRE DI DANTE E CIO’ CHE GLI INSEGNO’

Per quanto noi sappiamo così poco intorno a Dante, è certo che egli nacque a Firenze, ma della sua casata, dei suoi antenati, veramente, si desidererebbe di sapere di più, perché ci nasce il sospetto, che, se si potessero seguire le radici sotterranee della razza di Dante, si andrebbe a finire molto lontano!
Un suo antenato, un secolo e più prima che Dante nascesse, era morto combattendo nelle crociate come un santo guerriero, e l’imperatore l’aveva armato cavaliere.
A questa gloria militare e religiosa della sua famiglia, Dante ci tiene moltissimo. E quando si pensi che la città di Dante, Firenze, era una città che oggi si direbbe democratica, questo vanto ha quasi un carattere di sfida!
Però Dante fa un’osservazione che vale per tutti i tempi, cioè dice: questa aristocrazia vale in quanto essa conserva la sua forza e la sua dignità; se no, è vana pompa! La nobiltà è un gran manto che il tempo taglia con le sue forbici misteriose.
E allora? Allora succedono anche le rivoluzioni.
E contrariamente a quello che un giovanetto può supporre, questa aristocrazia ha le sue basi non nelle magnificenze esteriori, (lusso, sperpero di ricchezza, vanità), ma proprio nel contrario: cioè in una austera e dura semplicità.
Almeno Dante ricorda che così, semplice e austera, fu l’aristocrazia dei tempi del suo antenato; e accusa di lusso, di scostumatezza, di bramosia di arrivare e di arricchire la democrazia del suo tempo.

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Anche dei suoi genitori sappiamo pochissimo, fuorché della madre che si chiamò: “Madonna Bella”!
Una leggenda racconta che, nel tempo che questa gentile donna era incinta di Dante, dormendo, una notte, vide in sogno se stessa vicina ad una chiara fontana, presso un altissimo alloro; e lì generò quel suo figliuolo, il quale rapidamente crescendo, si cibava delle bacche di quell’alloro e beveva di quell’onda pura, sì che divenne un grande pastore!
Gli studiosi hanno cercato per saperne di più, e non hanno trovato niente, niente altro che “Madonna Bella”.
Ma non è molto quello che sappiamo? Perché noi sappiamo che Dante dice (cioè fa dire dal suo maestro, Virgilio, che è quello che lo guida per il gran viaggio nel paese dei morti): benedetta colei che in te si incinse!
Non lo poteva dire lui in quanto sarebbe stata manifestazione troppo evidente di orgoglio, ma, insomma, è lo stesso: benedetta tua madre, perché ti ha generato così nobile di sentimenti.
Per essere precisi, osserviamo che Dante si fa chiamare da Virgilio, anima sdegnosa. Ora, fra lo sdegno che è una grande e rara virtù, e l’orgoglio che è un difetto, la strada è impercettibile e sdrucciolevole.
E Dante lo sa tanto bene che non tralascia occasione di farsi rimproverare di questa superbia della sua mente, anzi fa atti continui di contrizione, di umiliazione, e si inginocchia e prega (allora si usava molto pregare Dio) e si fa incoronare con un umile giunco – simbolo dell’umiltà – e si confessa; ma con tutto questo la sua natura prende, spesso, il sopravvento.
E perché non dirlo? Dante sembrerebbe anche vendicativo: tutte le volte che in quel suo viaggio, nel paese dei morti, incontra qualcuno che fu traditore, o ladro, o micidiale, egli non ha pietà, e proprio diventa feroce anche lui. E a quel povero dannato di Filippo Argenti, che gli dice: vedi che io son un che piango, risponde: rimani col tuo lutto e col tuo pianto! E imagina che Virgilio ributti colui come cosa sozza, dicendo: via costà con gli altri cani; e a quel disgraziato di Vanni Fucci, soffocato dalle biscie, Dante dice che da allora in poi le serpi gli furono amiche; e a quell’infelice di Alberigo, che voleva almeno piangere e sfogarsi col pianto, ma non poteva perché le lagrime si gelavano e formavano come una crosta, Dante promette bensì di levargli quella crosta di ghiaccio, ma poi non mantiene la promessa.
Aprimi gli occhi, supplicò l’infelice,
Ed io non glieli apersi!
E aggiunge: e cortesia fu a lui esser villano. Ciò che vuol dire che coi traditori, la sola cavalleria è la villania e il tradimento.
Insomma si può dire che se i suoi concittadini lo condannarono ad esser bruciato vivo, egli bene si vendicò e li cacciò nelle sue fiamme cantanti, nei suoi abissi di gelo, con una condanna veramente immortale; e non i suoi concittadini soltanto!
Oh, dovette essere un terribile uomo, Dante! L’esiglio, i dolori sofferti lo devono avere inasprito, ma certo il fondo della sua natura era ben terribile!
Ma meglio forse sarebbe dire che vi erano come due anime in lui, come di lui sono i due ritratti famosi: quello di Dante giovine con la rosa in mano, e un’aura di sogno e di amore; ed è il ritratto di Giotto; e quello di Dante esule, dalle linee del volto dure e tremende, ed è il ritratto che Raffaello divinò.

                                                      IL MIO BEL SAN GIOVANNI

Sappiamo per certo che egli fu battezzato nel battistero di San Giovanni. E quando uno va a Firenze e vede in piazza del duomo quel tempio (di sei lati come una celluzza di ape) a torno a cui girano i tram rossi, prova una gran commozione; e se passa le mirabili porte di bronzo ed entra dentro, gli pare, per arte di magia, di essere trasportato nei secoli addietro.

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Tutti questi cupi edifici fiorentini di dura pietra, con le torri e con i merli, che oggi lo straniero ammira in Firenze, sorgevano allora al tempo della giovinezza di Dante, per opera di un popolo giovine, ardente di vita politica, pieno di gagliardia, tutto dato alle industrie e ai commerci, commerci per i più lontani paesi d’Italia e di Europa. Dante si disgustò implacabilmente con quel suo popolo, ma conviene anche dire che quella giovinezza di popolo si trasfuse in lui, e che tutta la sua opera spira il profumo e la forza della primavera.

                                                             BEATA BEATRICE

Se poi uno si allontana un po’ dalla città, e va lungo l’Arno e si dilunga, e vede quei colli così armoniosi, con quei nomi così belli, così direi, romantici, come di un nostro romanticismo, e quel fiume cilestrino, allora gli si presenta un’altra visione!
Una fanciulla appare. Essa è di così incomparabile grazia che a Dante sembrò opera di Dio, e la imagine di lei gli entrò nel cuore così profondamente che non si scancellò mai più, e la chiamò Beatrice.
Quale nome, Beatrice! Che è beata, e dà beatitudine!
Essa – come egli racconta – volse gli occhi verso di lui, giovanetto – che era l’ora del tramonto del dì – e lo salutò molto virtuosamente, tanto che gli parve di vedere tutti i termini della beatitudine, e come inebriato si partì dalle genti, e ricorse in luogo solingo a pensare di quella cortesissima creatura.
Poi la fanciulla morì, e allora a Dante parve più bella, e si propose di dire di lei quello che mai non fu detto di alcuna altra donna.
Ma da principio gli parve cosa impossibile che Beatrice potesse morire.
Morrà dunque Beatrice? stupefatto egli domanda, perché tutti noi dobbiamo, a suo tempo, morire! Morrà dunque Beatrice?
Ma poi che fu morta, la vede portata in cielo dagli angioli, e quando fu in cielo, la vide sedere gloriosamente accanto alla Vergine Maria.
Così egli fece immortale la giovanetta tanto amata.
Da allora come una pallidezza mortale si dipinse sul volto di lui e spesso chiamò la morte così: Dolcissima morte, vieni a me. Tu devi essere gentile, perché sei stata in Beatrice.
Ben strana invocazione!
Ma forse ciò avvenne perché nella mente di lui il regno della morte si trasfigurò come il regno di una vita immortale e beata.
E allora compose per questa giovanetta morta il più fantastico libro d’amore che mai sia stato scritto a memoria d’uomo, cioè immaginò che Dio aveva mandato in terra Beatrice per indicargli la via del cielo – come si invia un angiolo –; e poi fece anche di più: nella “Divina Commedia” fece Beatrice con gli occhi splendenti di una luce così grande, che solo la sapienza divina poteva farli così.

                                                   LA SAPIENZA DI BEATRICE

Ma sarebbe un errore imaginare Beatrice come una delle donne istruite dei nostri tempi!
Si intende per sapienza non quella che si impara sui libri, ma un’altra sapienza alla maniera di una volta, che si può acquistare anche senza andare a scuola e magari anche senza aver fatto nemmeno la prima elementare, cioè fede, speranza e carità.
Gli apostoli di Gesù Cristo, per esempio, non avevano percorso nessun studio, ma possedevano quegli alti diplomi!
Questa Beatrice, così santa, non è però meno bella, anzi direi che Dante, per far capire i gradi della santità di lei, si vale della bellezza.
Questa Beatrice è colei che guida Dante in cielo, e arriva sino a presentare a Dio il suo amico, l’amico della giovinezza, chè è una cosa ben ardita: farsi introdurre nella casa di Dio da una bella donna!
Ma sono cose che bisogna capirle, ed è perciò che Dante dice, nel principio del Paradiso, così, superbamente: “O voi che avete piccola intelligenza, smettete di leggere il mio libro, tornàtevene a casa! non andate avanti, chè non capireste niente!”.
Oh, era ben aristocratico questo Dante!
Sì, ma per quelli che non capiscono niente, egli non intendeva mica il popolo rozzo soltanto, (come quell’asinaio che gli storpiava i versi), ma anche quei dotti che se anche avevano molti volumi nella testa, non avevano nel cuore, o nello spirito, o nell’anima, quelle tre sante virtù: fede, speranza e carità. Insomma, è tutta una maniera di pensare che non è più dei nostri tempi. E’ una maniera di pensare conforme un libretto famoso in tutto il mondo, che porta il titolo di Imitazione di Cristo, che fu scritto nel tempo di Dante, ma di cui non si conosce il nome dell’autore se non, forse, che fu un italiano. In esso è detto così: Se tu avessi a mente le parole di tutta la Bibbia, e le sentenze di tutti i filosofi, che ti gioverebbe tutto questo senza la carità e la grazia di Dio?
Ma se Beatrice, invece di morire nel fiore della sua giovinezza, fosse campata molti anni, sino a diventar vecchia, sarebbe lo stesso diventata l’angelo, venuto di cielo in terra a miracol mostrare?
Non ne sappiamo niente.

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Arrivati a questo punto anche un ragazzo, un po’ intelligente, può fare alcune osservazioni: cioè può dire: “ma questo di una fanciulla, mandata da Dio, dal cielo in terra, a miracol mostrare, è un sogno esso pure, una fantasia di poeti…”.
Sì, anzi siamo d’accordo che bisogna stare in guardia contro i sogni dei poeti.
Ma prima di tutto osserviamo che Dante era fatto così: aveva una facoltà di sogno quale nessun poeta italiano ebbe mai in Italia. E in secondo luogo osserviamo un’altra cosa molto difficile, ma la diremo lo stesso.
I filosofi del nostro tempo hanno il sospetto che tutte le cose che sono fuori di noi, siano un effetto di noi stessi: una creazione, una proiezione, – come essi dicono – del nostro spirito.
Ebbene, gli antichi, benché religiosi e diversi da noi, dicevano qualcosa di simile, cioè dicevano che, come dal grado maggiore o minore di perfezione dei nostri sensi, dipende la conoscenza più o meno chiara delle cose, così dalla purezza maggiore o minore della coscienza, dipende il nostro modo di giudicare.
Dante vedendo Beatrice dal volto impalpabile, come la corolla di un fiore, non poteva certo formàrsene l’idea stessa che se ne sarebbe formata un ciompo, cioè un operaio che cardava la lana (che era una delle principali industrie di Firenze).

                                                            ALTRI AMORI DI DANTE

E poi diciamo anche questa: non si deve credere che Dante fosse sempre così sentimentale, così sognatore! Sì, sognatore al punto da cadere in catalessi, da svenire, come quando ascoltò da Francesca da Rimini la storia del suo amore; ma ebbe anche tremende passioni come ne poteva avere proprio un ciompo, e forse anche più feroci, e se lo riconosce lui stesso, e da Beatrice si fa anzi rimproverare di queste sue tremende passioni!
Amò altre donne e fanciulle, o pargolette, come egli le chiama, e sospirava frequente al loro ricordo. Bastava un fiore a farlo sospirare!
Per una ghirlandetta che io vidi,, mi farà sospirare ogni fiore, dice in una sua poesia.
E per una di esse fanciulle, che bionda era e vezzosa, ma non volle accogliere il suo amore, scrisse in versi le più tremende invettive, e la chiamò Pietra, quasi a dire insensibile.
Questa donna che egli chiama Pietra, sarebbe, secondo alcuni dotti, quella stessa che egli chiama col nome così gentile di pargoletta. Ma di sicuro non se ne sa nulla.
Ma appunto perché Dante era uomo e sentiva tutte le miserie legate ai sensi, egli è grande, e la sua dolorosa battaglia contro le passioni, costituisce la sua gloriosa vittoria! Del resto i santi veri sono quelli che prima hanno lottato e sofferto, e così fu Sant’Agostino, Sant’Antonio, forse lo stesso San Francesco!
E a questo proposito ricordiamo ancora quel libretto dell’Imitazione di Cristo, dove dice: non voglio che tu ottenga la pace dell’animo con l’essere libero dalle tentazioni; ma tu avrai trovato la vera pace dopo che sarei stato provato da molte tribolazioni e contrarietà.
Egli, anzi, di queste sue passioni si riconosce tanto colpevole, che nel Purgatorio ha bisogno di lavarsi, e si getta entro le fiamme ardenti!
Beatrice, nel Purgatorio, gli appare circondata da sette damigelle, che sono le sette virtù, e terribilmente le rimprovera, quasi come donna gelosa di avere ascoltato il canto delle sirene, di essere andato dietro alla pargoletta, che è l’amore terreno o dei sensi.

                                      LA SAPIENZA DI DANTE E LA LINGUA ITALIANA

In quella Firenze, che si formava allora come città grande e nuova, passò egli la sua giovinezza, e fornito come era di una memoria che doveva essere prodigiosa, apprese tutte quelle cognizioni che si sapevano ai suoi tempi. Avrebbe anche studiato nelle università allora più famose: Bologna, e si dice, anche a Parigi, quando fu esule.
A quei tempi lo studio nei laici era scarso, e dotti erano soltanto i chierici, o sacerdoti, tanto che, nella lingua di quel tempo, per dire: uomo dotto, si diceva chierico, senz’altro.
Ma Dante, benché fosse laico, superò tutti i contemporanei, anzi pare che vedesse così addentro nei profondi misteri, che, pure essendo religiosissimo e cattolico osservante, non isfuggì al sospetto di uomo quasi magico o eretico.
E’ un errore! Ma molti grandi uomini furono sospettati di magia o di eresia.
Bisogna però avvertire che la Chiesa cattolica non usò mai persecuzioni contro Dante, pure avendo Dante inveito – come forse nessuno – contro quei papi e quei sacerdoti che avevano traviato dalla dottrina di Cristo.

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Fra le cose più sorprendenti di lui noi osserveremo questo: egli che aveva trovata questa che noi oggi chiamiamo lingua italiana, in tale stato di umiltà, che era chiamata volgare, quasi lingua del volgo (e quelli che erano dotti, come i chierici e notai, usavano il latino, e quelli che scrivevano in rima, usavano sì il volgare, ma andando dietro ai dialetti, o lombardo, o siciliano, o pugliese, e quanto alle immagini o concetti, sentivano l’influenza della poesia di Francia); ebbene Dante da questa lingua italiana volgare seppe far venir fuori la più ricca, armoniosa signorile favella che mai sia stata scritta, e la difese come cosa sacra, e inveì contro quegli italiani che questo volgare dispregiavano, per lodare le lingue straniere, anzi li chiama malvagi uomini soltanto per questo, quasi traditori d’Italia.
Sì, egli consacrò la lingua italiana, e lo capì tanto che rinnovò l’antica parola latina e greca, chiamando se stesso poeta, quasi creatore.
E in questa lingua egli non solo nella Commedia fa parlare ognuno secondo suo sentimento: Cesare, San Pietro, San Bernardo, Farinata, Manfredi, Ulisse, santi e demoni: ma i bimbi, gli uccelletti, le lucciole, i fiori, le stelle, la luna tonda, tutto il firmamento, tutto il mare parla per la sua parola; ed egli va a scandagliare certi abissi della coscienza che si possono paragonare a quegli abissi oceanici, dove vivono piante e mostri, che soltanto la scienza moderna ora va rivelando.

                       QUALE PERO’ SECONDO DANTE ERA LA VERA SAPIENZA

Ma ecco la cosa meravigliosa per noi moderni che andiamo tutti a scuola e impariamo tante materie, come si dice.
Tutta questa erudizione o coltura vale niente. E perché? Per un perché molto semplice. Perché la sola conoscenza vera è Dio, e a Dio si arriva non con i libri ma con la bontà e la purezza del cuore, la semplicità e non la complessività del sapere: il silenzio e non la parola, come abbiamo già detto, e come è bene ripetere. Lo aveva detto Cristo: “Beati i poveri di spirito!”. I semplici, i buoni, i puri di cuore, i silenziosi, sono il sale della terra. Essi vedranno Dio!
Ed è per questa ragione che in quei tempi molti dottori, anche in teologia, ebbero paura della loro dottrina, e buttarono le loro parole alle rane, come fossero un vano gracidare, e si chiusero dentro una cella. Pax in cella, foris autem bella! Solo dalla cella si vede il cielo!
Così si pensava allora.
E Dante sentì la vanità della sua grande sapienza, e forse per ciò unicamente fu sapientissimo.
Comprese anche la vanità della gloria di poeta, benché, a dir vero, se ne gloriasse, anzi sperasse di essere coronato del bell’alloro dai suoi concittadini, nel suo bel San Giovanni. Cosa che non avvenne, come abbiamo visto.
Sì, il nome di poeta – dice egli – è quello che più dura e più onora! In un nobile castello stanno i poeti e i sapienti. Ma che fama avranno anch’essi fra mille anni? Tutto è ben vanità! Tutte le occupazioni qui in terra sono insensate cure dei mortali.

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Dante però non si chiuse nella cella perché andò, a modo di pellegrino, errante tutta la vita; ma nei suoi pellegrinaggi spesso si fermava in quei monasteri, e conventi, e abbadie, che allora erano grandi, potenti e ospitali, come oggi sono i grandi alberghi, ma si intende che era ospitalità cristiana e non si domandava nome e cognome.
Alcuni di questi conventi dai bei nomi, come la Pomposa, Fonte Avellana, fanno pensare a chi guarda le loro rovine: “qui passò Dante!”.
Non si deve per altro credere che la vittoria su se stesso sia stata così facile! Anzi quella sua tanta sapienza in quel sì grande intelletto poco mancò non lo conducesse ad una presunzione di sé, che allora si credeva essere cosa molto pericolosa per la salvezza dell’anima, come vedremo più avanti.

                                                    LA DEMOCRAZIA FIORENTINA

Ed ora conviene dire una cosa che riguarda la politica di quei tempi, ma può essere cosa interessante anche per la comparazione con la politica dei nostri tempi.
Avete visto in primavera fiorire il mandorlo? vestirsi di foglie il sambuco?
Le altre piante sono nude. Ebbene l’Italia fu come una di queste piante precoci. Mentre in tutta Europa dominavano i baroni, i feudatari coi loro castelli, coi loro cavalieri, l’Italia fioriva in democrazia. Il popolo aveva fatto guerra ai castelli dei feudatari, dei nobili; li aveva costretti a venire in città, a vivere col popolo. E’ il Comune! Cioè la piccola repubblica che vuole essere libera, padrona, despota di sé; e di queste repubbliche o Comuni tutta l’Italia è piena, e vivono in gelosia e guerra tra loro. Queste furono le nostre piccole patrie, nella gran patria l’Italia, la quale si perdeva un po’ nell’antica storia, e nelle antiche memorie.
Questi Comuni riconoscono l’autorità dell’Imperatore, che sarebbe quello che oggi si dice lo Stato, ma se ne… friggono.
Le più gloriose di queste repubbliche erano tutte rivolte ai commerci, agli scambi, alle manifatture. Sono grandi mercanti o, mercatanti, come si diceva allora, esportatori e importatori per terra e per mare; fanno spola tra l’Oriente e l’Europa. Sono molto ricchi!
Il commercio ha bisogno di libertà, e perciò questi mercatanti fanno guerra ai baroni e ai feudatari, che sbarrano loro la via.
Più volte, quando l’Imperatore voleva far sentire la sua autorità, i mercanti fecero guerra all’Imperatore e lo batterono più volte, e la volta più famosa fu a Legnano, nel 1176.
Questi Imperatori erano di Germania.
In qual modo i mercanti dei nostri Comuni riuscirono a battere in campo aperto gli Imperatori e i suoi cavalieri, e perché gli Imperatori erano di Germania, e perché sacro era il loro diritto, è una storia troppo lunga a raccontare, e la lasciamo da parte. Basterà dire che erano considerati eredi di Cesare, l’antico imperatore romano, e il loro diritto alla monarchia universale non era discusso.
I nobili, o grandi, come erano chiamati, volevano invece che gli Imperatori fossero anche signori e padroni di fatto, e non di diritto soltanto. Dunque guerra anche fra questi borghesi, o mercanti, ed i nobili, che oggi si direbbe lotta di classe.

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Firenze fu proprio la città dove questa lotta di classe offre il più puro modello.
Dante aveva appena un anno di età, cioè eravamo negli anni della salute cristiana, come si diceva allora, 1266, quando re Manfredi che regnava in Napoli, una specie di Imperatore, un ben nobile e cavalleresco signore, fu battuto in una battaglia grande per quei tempi: la battaglia di Benevento.
Questa battaglia segnò il principio della fine per il partito imperiale o aristocratico, o ghibellino, come era detto, e in Firenze la parte democratica, o borghese, o guelfa, sostenuta dai papi, mise su tanto orgoglio che nel 1292 uno di questi borghesi fece una legge veramente bolscevica: scacciò da Firenze le famiglie dei ghibellini più compromessi nella guerra contro i guelfi, e stabilì che nessun nobile, o grande, potesse partecipare al governo se non si fosse iscritto in una delle corporazioni di mestiere o arti, come erano dette allora: una specie dei nostri sindacati, ma senza le tirannie odierne; e poi allora avevano per bandiera le immagini dei santi.
Erano i mercanti di lana, della lana gentile, come era detta, i notai, i pellicciai, i banchieri o cambiatori, gli speziali o droghieri; e questi formavano le arti maggiori o popolo grasso. Sarebbe, come si dice oggi, la grassa borghesia.
Poi venivano le arti minori, cioè i sindacati operai (ma questi contavano meno, tanto è vero che più tardi si accapigliarono col popolo grasso).
Questa borghesia fiorentina, come abbiamo detto, è piena di energia e di vita. Rinnova Firenze con belli edifici: fa battaglia per le vie contro i grandi, fa battaglia contro le città vicine per bisogno di espansione, permette a chiunque è svelto, cioè ha l’occhio aguzzo negli affari, di diventare ricco e anche di salire agli onori del governo. Sono gli arrivisti e i pescicani di quel tempo.
Dante, esule, non troverà parole abbastanza roventi per flagellare questa democrazia ingorda di ricchezza e di lusso, dove, come egli dice con parola immortale, un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene.
E viceversa loderà gli antichi casati, le costumanze semplici del tempo passato – come abbiamo già ricordato – quando gli uomini invece di andare in Francia a commerciare, stavano a casa loro, e quando le nobili donne filavano la lana e badavano alle culle.

L’una vegghiava a studio della culla
E consolando usava l’idioma
Che pria li padri e le madri trastulla,

L’altra, traendo alla rocca la chioma,
Favoleggiava con la sua famiglia,
De’ Troiani, di Fiesole e di Roma.

Il ricordo poi della vita cavalleresca, con onore e cortesia, gli farà scrivere versi pieni di rimpianto quasi romantico, con parole di immortale bellezza.

Le donne i cavalier gli affanni e gli agi,
Che ne invogliava amore e cortesia
Là dove i cuor son fatti sì malvagi.

                                             DANTE CITTADINO PERFETTO

Ma negli anni della sua giovinezza, Dante è il cittadino perfetto, che accetta le leggi, quali esse siano, dalla sua città. Serve la sua città come il più umile dei suoi concittadini: è soldato, e si inscrive in una delle arti, che fu quella degli speziali.
Così potè anche lui salire per la via delle cariche pubbliche, finché nell’anno 1300 diventò uno dei priori o capi della Repubblica di Firenze.
E allora per dare pace alla sua Firenze, travagliata dalle guerre cittadine, stabilisce certe leggi di severa giustizia che colpiscono tanto i suoi amici quanto i suoi nemici politici.
Quello che gli stava a cuore era la libertà della sua patria!
Ma dovette accorgersi che ciò che, invece, importava ai partiti era, non la patria, ma il trionfo del partito! “Perisca anche Firenze, ma si salvi il partito!”.
Era logico che questo uomo giusto dovesse esser la maggior vittima della sua rettitudine, e allora contro di lui fu scagliata quella condanna così crudele.
Ma dobbiamo dire tutta la verità senza paura?
E’ probabile che se Dante tornasse a vivere, sarebbe condannato un’altra volta.

                                        L’ITALIA E L’IMPERO NEL PENSIERO DI DANTE

Da allora le idee politiche di Dante presero un’altra orientazione, che non è facile spiegare. Bisogna intanto ricordare che allora le nazioni (o il concetto di nazionalità) non erano ancora formate. Si può dire che si veniva formando, anzi, in quei tempi.
Ora Dante non imagina l’Italia come nazione che sta a sé, ma imagina una grande monarchia di tutte le genti cristiane; cioè che l’Imperatore venga in Italia a fare valere tutta la sua autorità, a mettere ordine, a punire i prepotenti, i faziosi, e specialmente i fiorentini!
Questa idea della grande monarchia universale è per un lato un sogno di poeta, perché va contro la storia, e per un altro lato è una concezione stupenda di ordine e di pace che chi sa quando si potrà avverare! Dante, anzi, afferma che questa monarchia è voluta da Dio!
L’Italia sarà la parte più bella, il giardino dell’Impero, e papa e imperatore insieme e d’accordo governeranno il mondo! E Roma sarà ancora la città regina del mondo, e papa e imperatore vi avranno sede.
La lingua italiana sarà la lingua dell’Impero!
Siccome poi gli imperatori erano di Germania, ma erano considerati come imperatori romani, così Dante esorta, anzi rimprovera gli imperatori di Germania perché non fanno il loro dovere, cioè non vengono a Roma a governare i popoli ubbidendo al comando di Dio.
E siccome in quei tempi uno di questi imperatori, un brav’uomo chiamato Arrigo VII, si preparava a scendere in Italia, così Dante fu uno dei più attivi e ferventi propagandisti della sua venuta.
Questo imperatore venne, rimase due anni in Italia, ma vi concluse poco.
Concludere in Italia, è sempre stato difficile!
Questo imperatore morì in Italia nel 1313, e Dante lo onorò anche come morto, preparandogli un gran seggio in Paradiso, con sopra l’aquila imperiale.
L’Italia – dice Dante – non era ancora disposta a ricevere l’Imperatore.

In quel gran seggio a che tu gli occhi tieni
Per la corona che già v’è su posta,
Prima che tu a queste nozze ceni,

Sederà l’alma, che fia in terra agosta,
Dell’alto Arrigo, che a drizzare Italia,
Verrà in prima che ella sua disposta.

Ma, come si vede, di “esser drizzata”, l’Italia, anche dopo tanti secoli, è sempre poco disposta!

                                                IL DOLORE DELL’ESIGLIO

La fallita impresa di Arrigo VII fu una grande delusione per Dante! Ma chi non ricorda, dopo la guerra, quante speranze ci furono per Wilson?
Da allora Dante si chiuse nella cella della sua mirabile contemplazione, e guardò questa vita come purificata dalla morte.
L’esiglio di Dante lo conoscono un po’ tutti; tutti sanno che egli è il “ghibellin fuggiasco”, benché egli propriamente era inscritto nel partito guelfo quando abitava a Firenze, e, dopo, non fu né ghibellino né guelfo, anzi, con una frase superba, disse che il suo partito politico era lui solo.
In questo esiglio, che durò tutta la restante vita, egli soffrì molto e anche questo lo sanno tutti per via di quei famosi versi:

Tu proverai sì come sa di sale
Lo pane altrui e come è duro calle
Lo scendere e il salir per le altrui scale,

che vuol dire tante cose!
Sì, egli fu ospitato con benevolenza e con amore nei castelli dei nobili signori, e nelle abbadie grandi e belle, ma insomma non era casa sua! E questo pare quasi un elogio di quella proprietà privata che tanti oggi combattono! Avere il suo pane nella sua casa! il suo letto! il suo tetto! il suo orto dove camminare senza domandare il permesso agli altri! Il che – si badi! – non è l’elogio della ricchezza.
Egli dovette lasciare tutte queste cose a lui care!
Bisogna poi pensare che allora non era come oggi che uno, purché abbia denaro, trova all’estero belli alberghi, agiatezza di vita: può, insomma, vivere bene tanto a Parigi, come a Firenze, come a Madrid. Allora non era così. Anzi essendo l’Italia formata di tante piccole repubbliche o Comuni, e Signorie, avveniva che un cittadino di Firenze andando a stare, supponiamo, lì vicino, a Siena, a Pisa, veniva considerato come straniero.
Proprio con sicurezza in quali paesi Dante dimorasse noi non sappiamo: Verona, Lunigiana, Ravenna. Egli ci dice che girò tutta l’Italia, e sarebbe andato anche all’estero; ma ad ogni modo ci pare di vederlo come un fantasma camminare su per il crinale dei monti d’Italia, e spingersi sin lassù nel Trentino, sul lago di Garda, e di lassù, in alto, contempla questa Italia, che si adagia mollemente nel mare, e la chiama: “Italia bella!”.
Anzi si direbbe che l’abbia camminata tutta, tanto miracolosamente ci descrive certi luoghi e paesaggi: San Leo, e la Romagna, e la Liguria, e Venezia! E va e va, e ogni tanto si arresta! Suona la campanella della sera, e allora il suo desiderio ritorna al dolce nido. Firenze. Sospira! Una preghiera! E va e va ancora. Che strano uomo!
Anzi si direbbe che l’abbia camminata tutta, tanto miracolosamente ci descrive certi luoghi e paesaggi: San Leo e la Romagna, e la Liguria, e Venezia! E va e va, e ogni tanto si arresta! Suona la campanella della sera, e allora il suo desiderio ritorna al dolce nido. Firenze. Sospira! Una preghiera! E va e va ancora. Che strano uomo!

                                             DANTE POETA DELLA NAZIONE

E qui bisogna intenderci, anche per correggere un errore di giudizio in cui si cade involontariamente.
Noi consideriamo Dante come il poeta della Nazione. E’ vero! Ma in un modo ben diverso da quello moderno! E così noi consideriamo Dante come il padre d’Italia, e per tale lo onoriamo. Sì, è vero: egli è il padre d’Italia, ma nessuno come Dante scagliò mai tante rampogne contro l’Italia!
Pistoia deve decretare il suo incenerimento, Pisa deve essere sommersa dal mare, i Genovesi sono orribili, i Romagnoli sono bastardi e sempre in guerra, i Toscani sono volpi, botoli ringhiosi, lupi, Firenze è celebre nell’Inferno, e si agita come un’inferma condannata a mutare politica ogni mese, l’Italia è come un postribolo, serva delle proprie passioni; e poi contro gli individui che nomina per nome, così che fu detto che, se Dante avesse dovuto essere giudicato secondo il nostro codice, avrebbe preso chissà quanti anni di prigione come diffamatore.
Ma noi questo terribile odio lo dobbiamo intendere come un grande amore. Certo però che se Dante avesse avuto il potere, sarebbe stato molto autoritario.

                                                           LA DIVINA COMMEDIA

E’ probabile che molta parte della Divina Commedia egli la scrivesse (scrivesse? chi sa? forse la componeva con memoria prodigiosa) nella pace di Ravenna, e i grandi mosaici bizantini tutta luce e oro, tutte estatiche figurazioni, dovettero come guidare la fantasia del suo Paradiso.
Questa Divina Commedia è come un sogno, o visione, in cui Dante finge di visitare tutto il regno dei morti, cioè l’Inferno dove sono i dannati, poi il Purgatorio, e in fine il Paradiso dove sono gli eroi, i beati, i santi, gli angeli.
Ecco: noi diciamo, i morti, ma allora si diceva i vivi, in quanto che la vita vera, cioè eterna, era pensata come in un mondo fuori della terra, dove gli uomini ricevevano bene per il bene che avevano fatto, e male per il male.
La vita eterna era pensata come un episodio dell’uomo.
Questo modo di pensare è tutto diverso dal nostro. Noi oggi vediamo gli uomini lottare in guerre tremende per conquistare un paradiso di benessere in terra.
Nel medio evo, si credeva, invece che l’uomo col seguire le virtù: fede, speranza, carità, e poi fortezza, giustizia, temperanza, prudenza, e poi aiutato dalla grazia di Dio, potesse, se pur voleva, conquistare una vita di suprema pace, eterna e beata.
Gli uomini probabilmente operavano il bene e il male, allora come oggi, ma insomma credevano così, o almeno avevano il sospetto che una pupilla aperta lassù li guardasse e li giudicasse. Ad ogni modo l’idea di accumulare, risparmiare, far fruttare i quattrini, avere lauti stipendi ecc. non era allora così dominante come oggi.
Per questa ragione, nell’evo medio molti scrittori cristiani si provarono a darci una visone di questo altro mondo, dove Dio è re assoluto.
Fra tutte queste visioni la più bella è quella di Dante. Ed egli la chiamò semplicemente Commedia nel senso che egli intendeva un viaggio con lieto fine, in quanto che dalla vita terrena, piena di peccato e di errore, potè arrivare sino a vedere Dio.
Ma prima di vederlo, che viaggio! Deve spogliarsi di tutti i peccati, deve bruciare nel fuoco tutte le passioni, deve nel fiume dell’oblio dimenticare tutte le cose terrene! Soltanto allora potrà salire su in cielo e sarà ammesso alla presenza di colui che è perfetto e beato: Dio.
E allora si può domandare perché questo privilegio ad un uomo solo, a lui, a Dante?
Ecco, no.
Nessun privilegio! Dante è Dante sino ad un certo punto. Egli è un uomo: un semplice uomo peccatore! E il privilegio gli è dato unicamente per insegnare ai vivi la vita dopo la morte. E tu – Dante – insegna ai vivi la vita, che è un correre alla morte.
La Divina Commedia è un gran libro di poesia, dove con molta arte sono descritti drammi potenti, dove ognuno grida con disperata voce la sua colpa e le sue passioni: come l’amore di Francesca per Paolo, le sofferenze del povero conte Ugolino, l’orgoglio politico di Farinata ecc. ecc., e vi sono uomini e donne di tutti i paesi e di tutti i tempi.
E se non gridano gli uomini, gridano le pietre, i fiumi infernali, i demoni!
“Se non ci fossero quei versi prodigiosi che descrivono tutte queste cose della nostra vita, che cosa sarebbe la Divina Commedia? Sarebbe un vecchio libro in versi di religione passata o di vecchia storia! Chi si interessa più dei diavoli, o dei beati, come beati?”.
Così si dice oggi da molti. Insomma oggi avviene il contrario di quello che si pensava ai tempi di Dante.
Allora si leggeva la Divina Commedia più specialmente come un libro religioso, che serve di guida per l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso, che contiene tante belle spiegazioni su le cose di nostra religione.
Ai nostri tempi questo aspetto religioso della Divina Commedia, interessa poco, o per dir meglio, interessa più per istudio che per sentimento.
Tutti quegli esempi e sublimi sentenze morali che egli allinea come tanti ordini del giorno, allo scopo di conquistare la vita eterna, interessano poco i moderni, press’a poco come avrebbe interessato gli uomini del medio evo quegli altri ordini del giorno che oggi tanto interessano: come: “proletari di tutto il mondo, unitevi! la proprietà è un furto! dittatura dei lavoratori manuali, ecc.”.
Con questo non si vuol dire che oggi non si studi la Divina Commedia! forse anche troppo si studia per il fatto che è persino libro di testo obbligatorio nelle scuole; e a questo proposito mi nasce un dubbio, ed è il seguente, che se Dante tornasse in vita, non so se egli avrebbe molto piacere di questa obbligatorietà, e se per caso, sdegnoso come era, sentendo recitare nelle scuole i suoi versi, non si comportasse come con quell’asinaio che menava l’asino e recitava in frattanto i versi di Dante, e ogni poco si intercalava un “arri”, come sarebbe a dire un ahò! romanesco, al somaro. E allora Dante disse che quell’ “arri” lui non ce lo aveva messo, anzi picchiò l’asinaio.
Ma lasciamo da parte queste cose.

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Oggi si studia moltissimo Dante, e si tengono letture pubbliche dei suoi canti nelle principali città, e i dotti vanno con la lente cercando ogni piccolezza, e quello che interessa è la parte storica, (e si fanno ricerche su ricerche come se la Divina Commedia fosse una grande cronaca dell’evo medio): interessa molto la spiegazione dei simboli; ma più specialmente interessa la parte psicologica, cioè quei grandi quadri di uomini e donne, beati e dannati, che raccontano così bene il dramma delle loro passioni, che par di vederli ed udirli come in una azione di smisurato teatro.
Insomma si può dire che la bellezza letteraria della Divina Commedia è la cosa più pregiata oggidì, cioè quella che si chiama estetica (parola brutta usata dai dotti per significare il bello).
“Guai – dicono i dotti – se Dante non fosse estetico!”.
E qui siamo tutti d’accordo: guai se la Divina Commedia non fosse bella! Essa non sarebbe sopravvissuta fino ad oggi. Però si può fare un’osservazione, ed è questa: che quasi naturalmente tutte le grandi opere di religione sono belle: belli sono i dieci comandamenti di Mosè, belle le litanie, bello il pater noster, bello l’Evangelo, bello il cantico del Sole, bella l’Imitazione di Cristo, belli i sermoni di Budda ecc. ecc. Ma è pur vero che quegli uomini che scrissero quelle cose non pensarono affatto all’estetica o alla gloria letteraria, ma fu il gran sentimento, la gran fiamma che fuse e compose le loro parole. Direi è un mistero: è la voce di Dio che dà bellezza.
Io non voglio andare sino all’esagerazione di dire che Dante scrivesse la sua Commedia unicamente per fare un’opera religiosa e morale. Sì, egli sapeva benissimo che la sua era una grande opera letteraria, un grande poema, anzi ogni tanto inserisce precetti di retorica (o di estetica che dir si voglia), ma io credo che a lui stesse molto a cuore, di comporre un libro che giovasse agli uomini, e li rendesse migliori.
E credeva egli in Dio, nel Paradiso, nell’Inferno?
Sono domande a cui non si può rispondere.Noi formiamo i giudizi secondo la nostra povera mente e stentiamo a pensare che vi possano essere uomini del tutto eccezionali, che corrono il rischio di sembrare quasi pazzi ai nostri occhi.
Noi siamo interessati ai guadagni, ai risparmi; ma vi sono stati quelli che hanno avuto per il denaro un disinteresse tale che a noi pare follia. Noi vediamo con i nostri cinque sensi e vi sono quelli che ne hanno di più assai. Noi parliamo con le nostre parole e vi sono quelli che parlano per musica o per strani silenzi. Noi vediamo tre dimensioni, e vi sono quelli che ne vedono quattro.
Insomma anche con tutte le scoperte moderne, vi sono paesi inesplorati, e può benissimo darsi che Dante avesse tanto bisogno di una verità assoluta, così da credere in Dio.

                                                     IL PECCATO DI DANTE

Sebbene molti dotti del tempo nostro ne tengano poco conto, sarà bene ricordare in che cosa Dante si reputasse grande peccatore.
Dante – come tutti sanno – comincia col dire che si trovò in una selva terribile. Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura; ed egli voleva uscirne, ma tre belve gli sbarravano il passo, e lo spingevano verso la morte. Bene, egli voleva salvarsi, ma con le sue forze, non poteva, e allora vide come un fantasma vicino a sé. Questi è il poeta latino Virgilio, un gran poeta, un gran sapiente, e anche un profeta. Se non c’era Virgilio, Dante era bell’e perduto! Ma era stata Maria Vergine, dall’alto del cielo, coi grandi occhi stellati a vedere che Dante correva verso la morte, e aveva detto a Beatrice che abitava nel cielo: “va, va in gran fretta a soccorrere l’uomo che amasti tanto!”. E Beatrice era scesa e piangendo per compassione, aveva pregato Virgilio, che abitava nel limbo, di accorrere in aiuto di Dante. Più tardi, poi verrà Beatrice stessa a guida di Dante, e che rimproveri tremendi farà! “Ah, tu hai seguito la via non vera per amore dei falsi beni del mondo! tu ti lasciasti incantare dal canto delle sirene! Confessa, confessa peccatore che sei”, come abbiamo già detto.
E Dante tremando confesserà i suoi peccati e soltanto allora Beatrice, lo condurrà per l’ultima parte del gran viaggio, che è il Paradiso.
Questa era la maniera di esprimersi allora: per via di allegorie. E non è difficile capire che la selva è il peccato in cui Dante è caduto. Ma quale dei sette grandi peccati in cui i cristiani dividono nettamente, anche oggi, il peccato, e lo chiamano proprio peccato, cioè superbiainvidialussuriagolaaccidiaavariziaira? Questo proprio non si sa. Forse un po’ di tutti, con preferenza di alcun.
Ma quello che importa sapere, è che la morte di cui Dante ha tanto orrore, non è la morte del nostro corpo, ma la morte dell’anima, perché se così sarà, non vedrà il solo vero bene, che è Dio. E allora quale altro maggior peccato, maggiore dei sette peccati mortali, avrà commesso Dante, lui così virtuoso nella sua vita, se ha tanto terrore, se tanto si vergogna, se tanto si confessa?
Per gli altri peccati, i sette capitali, l’uomo può salvarsi da sé. Basta una lagrimetta di pentimento sincero. Ma qui, invece, vedete quanti aiuti per salvarsi: Maria Vergine, la Grazia, Beatrice, Virgilio!
Quale peccato?
Non si sa proprio bene; ma le cose sarebbero andate così, in un modo molto interessante. Noi moderni, anche se non abbiamo la intelligenza che aveva Dante, siamo prima di tutto molto desiderosi di conquistare i beni e gli onori qui in terra, in secondo luogo per mezzo della scienza crediamo di sapere tutto, e perché c’è il mondo, e perché va così, e come si può guidare. Direi che oggi l’uomo ha una tendenza a credersi lui il cocchiere, che guida il mondo. Invece per Dante questo è il grandissimo peccato, per cui l’uomo va facilmente incontro alla vera morte.
Noi non siamo mai sazi di beni materiali. Per Dante, invece, questa cupidigia e questo orgoglio sono peccato. Questi beni sono beni fallaci. Il vero bene è nella perfezione interiore.
Questo modo così diverso di pensare fra noi e Dante è molto importante!

                                            LA VARIA FORTUNA DELLA DIVINA COMMEDIA

Sarà utile cosa dichiarare che ci furono lunghi tempi in Italia in cui la Divina Commedia sembrò agli italiani come un rozzo poema medievale, con qualche episodio estetico qua e là, e che la sua rinomanza risorse come un sole quando, al principio del secolo passato, si venne formando in alcuni uomini italiani quel sentimento di dignità e onore, che ebbe poi per conseguenza la liberazione della nostra patria dal dominio degli stranieri.

                                                          LEGGENDE SU DANTE

Intorno a Dante sono stati scritti tanti libri che da soli basterebbero a formare una libreria.
Ma noi dettando queste cose per il popolo, preferiamo servirci del libro del popolo.
Il popolo possiede come una sua istintiva intelligenza, con una sua curiosa orientazione verso la verità, nel modo stesso che gli uccelli, anche senza aver studiato geografia, dirigono con sicurezza il loro volo.
Il popolo non ha certo aperto il volume di Dante, però ha capito che quest’uomo era qualcosa di straordinario e di diverso da tutti gli altri, anche se stravagantissimo, e perciò a lui, come del resto a molti uomini straordinari, ha attribuito motti e leggende che non saranno niente affatto veri, ma che ci dipingono l’uomo.
E fra queste leggende e motti e annedoti, ne scegliamo qualcuno dei meno conosciuti, e fra i più adatti ad essere riferiti a giovanetti.
Così si appariranno due disposizioni opposte nella mente di Dante: l’una è come una facilità all’astrazione, al sogno, l’altra è un gran senso vigile della realtà; poi una memoria prodigiosa, poi una mordacità implacabile, tanto verso i comuni uomini, come verso i potenti della terra, poi un disprezzo per tutte le vanità del mondo, poi un orgoglio di sé, che è in contrasto con tanta umiltà.
Naturalmente il popolo in queste sue leggende non dice se ciò è bene o male. Dice: è così.

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Una volta fu a Napoli e andò alla corte, chiamato dal re, che voleva conoscere il suo senno e la sua virtù. Così allora usavano i re. Dante andò, ed era l’ora che il re desinava coi suoi baroni. E ci era andato vestito dozzinalmente come sogliono i poeti, e fu perciò messo a coda di tavola.
Mangiato che ebbe, Dante prese su e se ne andò. Poco dopo il re domandò dove era andato Dante. Gli fu risposto che era partito e camminava verso Ancona.
Il re capì che Dante se ne era avuto a male per l’umile trattamento che gli era stato fatto, e allora mandò suoi messi per richiamarlo.
Dante ritorna, e di una bellissima roba si vestì. Il re lo mette allora a capo tavola, vicino a sé. Vengono le vivande e Dante si versa vino e vivande sul vestito. Il re e i baroni dicono: – Costui deve essere un poltrone. – Dice il re: – Essendo voi così savio, come usate tanta bruttura?
Risponde Dante: – Santa Corona, l’onore che voi ora mi fate, lo avete fatto ai miei panni, e perciò voglio che essi godano le vivande apparecchiate per loro. Io ora non sono di meno senno di quello che fui, quando fui assettato in coda di tavola, e questo fu perché allora ero mal vestito, e ora con quel senno che avevo son ritornato, e ben vestito, mi avete fatto stare a capo tavola.

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Essendo, una volta, Dante ospitato dai Signori di Verona, un buffone gli disse: – Che vuol dire che io, essendo pazzo e ignorante, sono assai più ricco e molto meglio ricompensato di te, che sei poeta e sei savio?
E Dante rispose: – Quando io troverò un Principe, simile ai miei costumi, come tu lo hai trovato simile ai tuoi, io sarò più ricco di te.
Un’altra volta Dante in Ravenna era in chiesa, e quando il sacerdote levò l’ostia consacrata, Dante non si inginocchiò.
La gente corse subito ad avvertire il vescovo, e questi lo mandò a chiamare e gli domandò: – Che avete fatto voi quando si levava l’ostia?
– In verità – rispose Dante – io non mi ricordo cosa facessi col corpo, perché avevo la mente rivolta a Dio. Ma questi cattivi uomini ve lo saprebbero ben dire, perché avevano gli occhi rivolti più a me che a Dio, e se avessero avuto la mente rivolta a Dio, non sarebbero stati a guardare quel che io facevo.

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E che Dante fosse speculativo e meditativo al punto da avere smarrimento delle cose circostanti, è significato da quel noto episodio, che una volta in Siena correndosi il “palio” con gran rumore di trombe e cavalli, ed egli leggendo, richiesto che gliene fosse parso di quel torneo, rispose che non se ne era accorto.
E che i suoi occhi vedessero sino dai giovani anni quello che gli occhi umani non vedono, è significato da questo fatto che egli stesso racconta.
Dormiva ed ebbe la visione come se il sipario di questo mondo si fosse sollevato, e un altro mondo fosse apparso, ed era così pallido, con tanta angoscia, che faceva pietà, e perciò le donne gentili della sua famiglia lo destarono e gli chiesero: – Che hai tu veduto che sei come morto? – Ed egli raccontò il sogno premonitore della morte di Beatrice, come abbiamo già detto in principio, e così scrisse quella canzone, unica in nostra lingua, in cui le parole trapassano in una indeterminatezza estatica, che è come musica, e perciò i commenti sono inutili, ed è quella che comincia: Donna gentile e di novella etade.
E quando egli fu in Verona, le donne del popolo scorgendo quello strano volto, dicevano piano fra loro:
– Vedete colui che va nell’Inferno e torna quando gli piace?
Ed egli sorridendo alquanto, passò avanti.

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Come esempio della memoria che Dante doveva possedere ad un grado, – direi, – prodigioso, si racconta questa leggenda. Essa pare molto semplice, eppure è significativa.
Quando Dante dimorava in Firenze, soleva, alla sera, nella calda stagione, recarsi nella piazza detta allora Santa Reparata, e oggi Santa Maria del Fiore, e lì, sopra un muricciuolo, si stava prendendo il fresco.
Ora, una sera, gli si presenta uno sconosciuto, e lo interroga così: – Mio Signore, io sono impegnato a dare una risposta, e non so come fare. Voi che siete così istruito, ben me la potreste suggerire: la domanda alla quale devo rispondere è questa: quale è il miglior boccone?
E Dante sùbito rispose: – L’uovo.
Un anno dopo, seduto Dante su lo stesso muricciuolo, gli si presenta ancora quello sconosciuto, e ancora lo interroga, come continuando il dialogo di un anno prima: – Con che?
E Dante: – Col sale.

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Della arguzia e prontezza di spirito di Dante, si racconta questo grazioso aneddoto.
Dante, secondo un’opinione non accertata, ma tutt’altro che improbabile, sarebbe stato mandato da Guido da Polenta, signore di Ravenna, quale ambasciatore, o oratore, – come si diceva allora, – a Venezia; dopo il quale viaggio infermò e morì. Non è improbabile che nel ritorno, attraversando per la via Romea – ora scomparsa – quella regione palustre, lungo il litorale adriatico, infermasse di quella che si dice oggi febbre infettiva o palustre.
Or dunque, essendo egli a Venezia, fu invitato dal Doge a desinare. Era un giorno di vigilia; e tutti quei signori avevano davanti, nel piatto, grossi pesci; e Dante, invece, pesciolini piccoli piccoli. Ora Dante prese uno di questi pesciolini e se lo accostò all’orecchio.
A questa bizzarria, il Doge domandò perché egli facesse così. E Dante allora rispose: – Il padre mio è morto in questo mare, ed io domando al pesciolino se ne sa qualche cosa.
E il Doge disse: – Ben, che ve diselo?
El dise (dice) – risponde Dante – che lui e i suoi compagni sono troppo giovani per potersi ricordare; ma che qui vi sono dei vecchi e grandi pesci, che ben mi potrebbero dare notizia del padre mio.
E fu così che il Doge fece avere anche a Dante un bel pesce grosso.

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Anche della mordacità di Dante nel rispondere, quando era importunato da noiose o stolte domande, molti sono i racconti.

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Una volta Dante domandò a un contadino che ora fosse: e questi, da quel villano che era, rispose: – E’ l’ora che le bestie vanno a bere.
E Dante sùbito: – E tu che cosa fai qui?

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Ed è interessante l’opinione, diremo così letteraria, dei suoi contemporanei.
In Ravenna, Dante, un dì, leggendo fra dottori e scolari, un dottore per bene si alza, e dice: – Io dico che Dante è un villano.
E tutti domandano perché. Perché – disse colui – Dante ha detto nelle sue opere ogni cosa degna di memoria e di fama, e non ha lasciato a dire nulla ad altri, e perciò è villano.
Ma un altro dottore si alza e dice: – E chi è questo Dante? Io non stimo le sue opere cento soldi, – e glielo confermò: – Io stimo le tue opere molto meno di cento soldi.

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Ma più strano ancora è che quest’uomo che così altamente aveva parlato di Dio, era ritenuto un po’ sospetto di eresia; e un frate inquisitore, in Ravenna, lo mandò a chiamare e gli domandò: – Sei tu quel Dante che dici che andasti in Purgatorio e in Paradiso? – E Dante disse: – Io son Dante Alighieri. E l’inquisitore iratamente disse: – Tu vai facendo canzone, sonetti e frasche! Meglio faresti aver fatto un libro di grammatica e non attendere a queste sciocchezze che ti potrebbero dare quello che non ti aspetti.

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Secondo invece alcuni sapienti, non si doveva dire “Commedia” il libro di Dante, ma il “libro dello Spirito Santo”.

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Ed è anche strana, anzi direi quasi magica, la storia della Divina Commedia. Questo poema è così perfetto e armonioso in tutte le sue parti, coi suoi cento canti, divisi in tre cantiche, di trentatré canti ciascuna, col suo canto di introduzione, con tutte quelle parole, “stelle” che sigillano i canti, con tutti quei particolari minutissimi, che Dante, poeta, pare abbia dentro di sé anche un matematico, un architetto, un ragioniere.
Ebbene quando Dante fu morto, il figlio suo Jacopo non trovava gli ultimi tredici canti del Paradiso. Cerca e non trova!
Perciò nacque il dubbio al figlio e agli amici se il poema fosse stato compiuto.
Ed ecco di notte appare al figlio la visione bianca del padre, otto mesi dopo la morte.
E il figlio gli domanda se viveva. Ed egli rispose sì, ma della vita vera, non della nostra.
E poi Jacopo gli domandò se aveva compiuto l’opera sua, e dove era quella parte che vi mancava, che da loro giammai non si era potuta trovare.
E l’ombra di Dante disse: – Si, la compiei !
E parve al figlio che il padre lo prendesse per mano, e lo conducesse in quella camera dove era usato dormire, e indicando un luogo riposto disse: – Qui é quello che voi tanto avete cercato.

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Così sarebbero stati ritrovati gli ultimi tredici canti del Paradiso.
Prima di morire, dunque la sua opera era compiuta.
A compiere tanta opera, ad additare le vie del bene vivere agli uomini egli era venuto, o almeno così pare.
E così altri uomini già vennero prima di lui, ed altri verranno, che sembrano come inviati da quelle forze misteriose che noi, non sapendo come chiamare, chiamiamo, tuttora, Provvidenza.

                                                           LA LINGUA ITALIANA

                                                                Dante Alighieri

Dante nella una sua opera, ll Convito, difende la lingua italiana, che allora si diceva “volgare”, contro quelli che, pur essendo italiani, scrivevano il provenzale e il francese. Le cose che Dante dice sono vere anche oggidì.

Sì come il mal fabbro biasima il ferro rappresentato a lui, e il mal citarista biasima la citara, credendo dar la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro e alla citara, e levarla a sé, così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l’uomo li ritenga dicitori (1): e per iscusarsi del non dire o dire  male, accusano e incolpano la materia, cioè il Volgare proprio, e commendano l’altrui, il quale non è loro richiesto di fabbricare. E chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi che opere ne fanno i buoni artefici, e conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, si credono scusare.

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E perché con quella misura che l’uomo misura se medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di se medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l’altrui meno buone; il pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l’altrui assai. Onde molti per questa viltà dispregiano il proprio Volgare, e l’altrui pregiano; e tutti questi cotali sono gli abominevoli cattivi d’Italia, che hanno a vile questo prezioso Volgare, il quale, se è vile in alcuna cosa, non è in sè se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri (2).
Sono molti che per ritrarre (3) cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere  ammirati, che ritraendo quelle della sua. E senza dubbio non è senza lode d’ingegno apprendere bene la lingua strana (4); ma biasimevole è commendare quella oltre la verità, per farsi glorioso di tale 4 acquisto.

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A perpetuale infamia e depressione dei malvagi uomini d’Italia, che commendano il volgare altrui e il proprio dispregiano.

1.Dicitore in rima, cioè press’a poco poeta
2.Qui nel senso di traditori
3.Ritrarre con la mente: cioè comprendere Che per ritrarre, cioè, i quali per il fatto che comprendessero cose scritte in lingue straniere.
4. Lingua strana : cioè forestiera.

                                                  OPERE MINORI DI DANTE

Le varie opere di Dante si chiamano tutte minori, rispetto alla Divina Commedia.
Difficile è stabilire in quale ordine di tempo furono scritte; esse si dividono in opere minori in italiano, e opere minori in latino (che allora era lingua universale ed era usata nelle opere di dottrina); poi vengono le opere incerte se proprio siano di Dante.
1) La Vita Nuova d’Amore, composta, pare, fra il 1294 e 1295. Dante vi narra la storia del suo amore per Beatrice, incontrata da lui a 9 anni, poi di nuovo a 18 anni, sino alla morte di lei; poi del suo amore per la donna gentile, sino al proposito di scrivere di Beatrice quello che  non fu mai detto di nessuna donna.
Tutta questa narrazione è parte in prosa, parte in rima, per allegorie e simboli
2) Il Convivio, composto, pare, tra il 1307 e il 1309. Così Dante lo intitolò perché, come nel Simposio di Platone, vi si imbandisce un cibo spirituale, un intellettuale nutrimento; è anche un convito, questo di Dante, una mensa, alla quale egli invita tutti quelli che sono avidi di sapere.
3) Rime o Canzoniere, che comprende molte poesie di vario argomento (d’amore, dottrinali, allegoriche), scritte in diversi tempi. Dell’autenticità di alcune fra esse è dubbio fra i critici. Le migliori rime sono quelle che entrano nella Vita Nuova e nel Convivio.
4) De Vulgari Eloquentia (incompiuto) scritto durante l’esilio. Tratta dell’origine del linguaggio. Distingue 14 dialetti italiani, biasimandoli tutti, compreso quello toscano.
Ricerca la lingua illustre d’Italia nel concorso dei vari dialetti. E’ il primo lavoro, come oggi si direbbe, di carattere scientifico su la nostra lingua.
5) De Monarchia, in tre libri, scritto – forse – dopo il 1311, allorchè ferveva l’opera della restaurazione imperiale al tempo di Arrigo VII. Nel primo libro Dante sostiene la necessità della monarchia universale; nel secondo dimostra che il diritto imperiale risiede nel popolo romano; nel terzo bandisce la divinità dell’impero e dell’autorità imperiale, che direttamente proviene da Dio, e solo da Dio dipende.
6) Epistolae, cioè le lettere (che si devono intendere nel senso di trattazioni politiche o filosofiche, dirette a grandi personaggi, in stile di alta retorica, come usava allora in questi componimenti. Della loro autenticità troppo, e a torto, si è dubitato per il passato per opera dei critici)
7) Ecloghe ( componimenti allegorici )
8) Quaesitio de acqua et terra (?) E’ una dissertazione che il poeta avrebbe tenuto a Verona, pare nel gennaio del 1320, di scarso valore scientifico.

claudioDante nel VI centenario