Sibilla Aleramo
Nell’anno della consacrazione di Panzini, il 1910, anche Sibilla Aleramo (1876-1960), con una recensione a Le fiabe della virtù, avverte l’esigenza di contribuire alla definitiva uscita dal limbo dell’anonimato dello scrittore. Per la verità la poetessa confessa di seguirne ammirata le gesta da parecchio tempo prima che i giovani critici lo “rivelassero” al pubblico.
La sensibilità della Aleramo è colpita dall’anomala prosa narrativa di Panzini, non animata dalla ferrea logica propria del romanziere naturalista, ma alimentata dalla nostalgia e dall’angoscia proprie del lirico. Date queste premesse si capisce che Sibilla Aleramo ammira le storie di Panzini non i loro intrecci complessi e appassionanti, perché sono l’allegoria dei fantasmi dei suoi fantasmi interiori, sulla falsa riga dei veri poeti.
“Facile è parlare di un libro che vi ha dato la gioia –quanto rara invero!- della scoperta: d’un libro di cui s’ignorava l’autore e la sua esistenza, e di cui nessuno ancora s’è accorto. Ma parlare d’uno scrittore che si conosce e si stima da parecchio tempo, parlare per la prima volta quando intorno a lui incominciano a salire stupite le laudi, è piuttosto imbarazzante. Si prevede, appena aperta la bocca, l’obiezione della gente: “Perché avete aspettato fino ad oggi?”, alla quale non si sa precisamente cosa rispondere. E si invidiano quei critici che, forti della loro giovinezza o incuranti di tutto ciò che fu stampato innanzi ch’essi imprendessero ad esercitare il lor ministero, possono con ingenua letizia salutare come una rivelazione, un artista già maturo di anni e di opere …..
Questo è il caso di Alfredo Panzini e del suo recente volume: Le fiabe della virtù. Caso degno di quell’umorista delicatamente amaro che egli che è, le fiabe della virtù sollevano, da sole, il suo nome alla fama che già i precedenti libri meritavano e non gli ottennero. Ma chi ha letto nel corso degli ultimi dieci anni Trionfi di donna, Piccole storie del mondo grande, La lanterna di Diogene,; chi ha letto, a distanza di semestri, le maggiori di queste medesime “fiabe”, nei fascicoli della Nuova Antologia, e altrove, ripensa al tempo in cui quasi nessuno si accorgeva di questo singolarissimo artista. Il Panzini di quel tempo non è cambiato. Il suo recente volume ha le stesse stupende qualità e le stesse stranezze dei volumi d’allora. In Trionfi di donna c’era un piccolo racconto dedicato ad una bimba, Puccin, dove scintillava giù tutta la grazia deliziosa e la pura commozione delle tre paginette che nelle Avventure d’un pater-familias sono ispirate alla “pupina”: un capolavoro quello, come questo di semplicità, di freschezza, di trasparenza: due sorrisi umidi di pianto. E nella Lanterna di Diogene, alternate a descrizioni squisite di paese – sempre lo stesso paese lucente di pioppi, lo stesso angolo di Romagna presso il mare e la pineta, lo stesso breve tronco ferroviario dove i capi-stazione e i casellanti menano un’esistenza che al Panzini sembra invidiabilmente idilliaca e a quelli insopportabile; si trovavano le stesse divagazioni ingenue contro il socialismo, contro il femminismo, contro il mondo moderno in genere, che occhieggiano timide ma tenaci fra l’una e l’altra bella pagina di quasi tutte queste “fiabe”, e specialmente nelle Chicche di Noretta, nella Ultima avventura di Sancio Pancia, nel Paterfamilias.
I personaggi sono sempre i medesimi. Gente modesta, gente piccola di città e di campagna; il professionista crucciato dai figli e dal fisco; vecchie donne sacrificate; giovanotti inconsapevoli delle tristizie che avvelenano i genitori. I loro casi sono tenui, d’una tenuità che parrebbe spoglia d’ogni significato, d’ogni interesse. Non hanno crisi. Il destino loro è tutto preveduto, normale. Il Panzini li sorprende in un’ora qualsiasi di questa loro pallida vita, come ieri, come domani. No, non li sorprende neppure. È la vita sua che, svolgendosi parallela a queste, ne avverte il perenne umile battito, lo avverte sino a non distinguerlo più dal battito del suo cuore stesso.
Il Panzini non è mosso a scrivere dal bisogno soltanto di raccontare le proprie vicende, proprie od altrui, come accade ai novellatori tipo Balzac o Dickens. Egli è un lirico. Uno che esala istintivamente voci di gaudio o di pena, a seconda dell’ora o del tempo, non perché qualcuno lo ascolti, ma per soltanto a se stesso la propria esistenza. Il lirico è come un eremita taciturno che in cima ad una gran vallata tutta fragorosa del precipitar del torrente lancia di tratto in tratto dalla gola una nota, ad assicurarsi ch’egli non è ancor né muto né sordo ….. Quando il Panzini parla, in quel suo tono apparentemente dimesso, vibra costante l’angoscia della sua solitudine intima, di una clausura volontaria che nulla mai romperà. Egli non cene fa cenno, parla d’altro, e come per gioco, vagabondando. Ma non ci trae in inganno. Tutto il mondo ch’egli evoca con quella sua arte inafferrabile è soltanto un fantasma del suo mondo interiore: in tutte queste figure tratteggiate in iscorcio, e che pur si stabiliscono nella nostra memoria come immagini definitive, noi indoviniamo lo sguardo fisso, il sorriso doloroso, la stanca e vana interrogazione dell’autore stesso.
L’hanno detto un ironista, l’hanno detto un pessimista: è un elegiaco, una creatura di sola sensibilità, un fanciullo cui la cura dei vecchi libri, come il Vangelo, come Omero, come Virgilio, incanta, e la vita reale e attuale sgomenta. È perché ha studiato quei vecchi libri sereni, è da suoi campi nativi è stato sbalzato nel traffico della metropoli, egli riproduce in se il duplice stupore, la duplice incomprensione dell’asceta e del campagnolo, davanti alle complicazioni, talora assurde talora grottesche talora tragiche, della società moderna. Il tragico nel destino umano è la vecchiaia, è la morte: perché aggravarlo ancora, mostruosamente? Un bambino che muore, non basta questo a fasciarvi l’anima per sempre di nero? E la pazzia senile, gli occhi, che più non vedono, dell’ava, il lamento fievole d’un esile corpo ove uno spirito rassegnatamente si spegne? Quando tocca questi motivi primordiali di terrore e di pianto, Alfredo Panzini è grande. Nel suo stile passa allora come l’eco di una musica sacra; l’anima delle cose e delle parole non sono più separate: a tutta la pura sofferenza racchiusa nelle opere espresse, risponde istantaneamente il gaudio mesto di tutte le parole, trepide, succinte, armoniose.
In tutta la prosa italiana moderna ci sono poche pagine che possono stare a confronto per bellezza di quelle poche che nei Diritti dei vecchi e dei giovani rappresentano l’inerme tortura della nonna cieca: la nonna che vorrebbe aver accanto la nipotina, e la nuora non gliela lascia: “….. la sente fuggire brancola con le mani, cerca la testa bionda, la testa cara dal profumo d’infanzia, e non la trova: non osa chiamare, e cade giù con la chioma, irta, grigia, su le ginocchia, per ore ed ore immobile, a leggere i misteriosi disegni che le tenebre vanno a lei dipingendo: così misteriosi, così terribili disegni che le pupille morte sono venute fuori dalle orbite, che la sua debole mente spesso vacilla …….
Ma l’arte di Alfredo Panzini ha superato se stessa nella novella Il padre e il figlio. La tragedia qui si estende, e la fatalità appare allo spirito dello scrittore dello scrittore più solenne, straziante sempre ma meno ingiusta, meno incomprensibile, con qualche bagliore di divino. Il Panzini ha adombrato nel contrasto fra un padre, rustico coltivatore, e un figlio scrittore di libri filosofici che nessuno legge, il dissidio della sua stessa natura. Due uomini remoti l’uno dell’altro, e che pur non possono fare a meno l’uno dell’altro. Ciascuno virilmente non cede quella che ritiene la sua verità: sino a che il figlio viene a morire esausto nella casetta del padre, la casetta tranquilla dove era venuto via via a “sgravarsi” dei suoi libri. Allora il padre capisce che Marco, quel suo gigante rimasto fanciullo, e ch’egli aveva tante volte rimproverato per la sua esistenza “inutile” è morto “di fatica”. E l’amore gli divampa nel petto per quella sua creatura misconosciuta. “Marco – dice dolcemente come se egli parlasse – scrivi un libro che costi come tutto il valore dei miei buoi!”. Con un lento ritmo biblico, in due sole pagine che assumono nella fantasia del lettore proporzioni immense. Il Panzini narra la lotta di questo padre contro il tempo che minaccia di cancellare la memoria del figlio: com’egli raccolga, senza nulla capirne, le sue carte, i suoi libri, i giornali che parlano finalmente del pensatore scomparso; com’egli faccia elevare da un architetto un monumento senza più badare a spese; e come il suo cuore tremi d’ineffabile conforto quando qualche filosofo qualche “foresto”, viene a visitare la casa dove suo figlio è vissuto ….
“…. Perché qualche anima in cerca d’una idea vagava ancora per il mondo….. Poi, il tempo passò, e di Marco, l’eroe, non parlarono più che le pietre del monumento, ed un cipresso”
Tutti gli elementi dell’arte di Alfredo Panzini sono in questa meravigliosa novella adunati e trasfigurati: la precisa osservazione realistica dei moti psicologici riflessi nei gesti e nei discorsi; l’umorismo delicato dei particolari; la grazia composta e pur vibrante nel disegno, insolito, personalissimo, della frase e del capitolo: tutto ciò in Padre e figlio acquista luce di perfezione per lo spirito pensoso che vi ondeggia libero, come rivelato finalmente a se stesso. È il preludio d’una poesia più vasta e serena? L’anima di questo lirico timido e appassionato non ci si è ancora compiutamente manifestata ce lo fa sentire questa novella che corona con la vittoria l’opera sua d’un decennio. Il suo dono è fatto così più bello dalla nuova speranza, come ogni dono di poesia.”
Corrado Alvaro
Corrado Alvaro (1895-1956) in un interessante articolo del ‘27 dal titolo “Lo spirito letterario dell’Italia contemporanea” sulla delicata e annosa questione della scarsa modernità della lingua italiana, chiama in causa, come esempio della falsità di questa tesi, pure Panzini. Contro la tesi del poeta classicista Ardengo Soffici, il quale sosteneva che la nostra lingua dove rimanere “intraducibile e antica”, Alvaro imputa la sua apparente staticità al torpore degli scrittori, che non hanno avuto la vitalità e il coraggio di rinnovarla.
Dopo il periodo romantico, che in Italia durò poco e produsse di realmente grande solo il Manzoni, Alvaro pensa che i primi segnali di risveglio dalla “contemplazione retroattiva” della letteratura italiana, siano apparsi dopo la guerra, grazie a Pirandello, Bontempelli, e, appunto, Panzini. Alvaro gli attribuisce il merito di aver saputo modulare la lezione carducciana con accenti e toni inconfondibilmente suoi.
“È stato diffuso il pregiudizio, e non soltanto all’estero ma in Italia, che la lingua italiana manchi di modernità e di ogni facoltà a diventare una lingua moderna, mossa, sciolta, e nello stesso tempo precisa. Su questo postulato che vale a spiegare molte peripezie della nostra letteratura, si sono svolte continue azioni e reazioni. Oggi, alcuni conservatori e classicisti come Ardengo Soffici, sostengono che la lingua italiana deve rimanere quella che fu: intraducibile, antica e magari noiosa in letteratura. Si, la lingua italiana possiamo immaginarla al punto in cui Diderot e Voltaire trovarono la lingua francese; ma tutti sanno come queste lingue nobili, appena siano manipolate con lievi contaminazioni e capricci stilistici, o adoperate a significar nuovi mondi, diventano magnifici e più vigorosi mezzi di espressione. Tutte le volte che la lingua italiana dovette esprimere fatti e pensieri, essere uno strumento sociale, conobbe la vita piena e si arricchì. Tutti conoscono la vaghezza delle lingue antiche portate a impieghi imprevisti, e la dinamica del sermone aulico condotto a parlata e pratica. Se guardiamo bene, i trattatisti come Machiavelli e Galileo o Campanella, contengono germi assai più vitali di quelli contenuti nei prosatori puri. È per questo che la letteratura italiana abbonda di epistolari che valgono assai più dei testi di lingua. Si ricordi che il romanticismo diede alla letteratura italiana un contenuto e un fuoco insoliti. Si conosce la scarsa impressione che sul classico Leopardi fece l’opera del Manzoni che possiamo considerare come il primo scrittore italiano moderno.
Ma il romanticismo durò troppo poco in Italia, e non distrusse abbastanza. Quasi sempre, per la stessa struttura della vita italiana, fu impossibile agli scrittori italiani rivolgersi a scrivere di fatti e per qualche scopo, magari sociale, che è uno dei postulati del romanticismo. Essi si dovettero cacciar sempre nel dominio dei fantasmi o delle ricostruzioni storiche. Fu quest’ultima la sola letteratura sociale possibile, ed essa, fra suggestioni del passato, ricordi storici, voluttà linguistiche fu la cosiddetta letteratura nazionale. Lo stesso Carducci, dopo anni di pamphlettista, assodò il suo prestigio con odi storiche d’un relativo interesse artistico, egli che era un così grande poeta idilliaco e oratore riottoso e pieno di passione. Lo stesso mite Pascoli ebbe a far lo stesso.
Una cosa scosse la letteratura italiana da questo suo stato di contemplazione retrospettiva: e fu la nuova vita dopo la guerra.
Bisogna allora vedere come il tramestio di valori, culminato con la guerra europea, abbia agito in Italia. Si nota una nuova espressione, una volontà faticosa ma totale di rinnovamento cui il futurismo aveva dato il primo accento.
Alfredo Panzini fu uno di quelli che trovò, dopo lunghi anni, accenti suoi e un mondo suo. Questo scrittore, allievo e amico del Carducci, adattò a un suo nuovo mondo espressivo, i fatti umani e nazionali. Egli rispecchiò la vita spirituale del 1915 e dell’immediato dopo guerra con una facilità di cui non gli siamo abbastanza grati. Venendo da una letteratura di idee generiche e di grossi fatti, fu uno scrittore tipico del tempo suo che rinunziava rinfocolare passioni già accese per ritrovarsi in quelle nuove. Il suo Viaggio di un povero letterato e certi suoi libri sul dopo guerra, come Il padrone sono me, facevano di lui uno scrittore tanto più sorprendente in quanto proveniva da un olimpo classicheggiante che gli fece scrivere quel prezioso romanzo che è Santippe. Ed egli si affrettò a superare questa sorpresa tornando a certa retorica cara alla sua giovinezza che ora gli diveniva balbettante. Ma, essendo uomo di gusto, non riuscì a metterla su come si deve, e d’altra parte gli mancava la violenza di certe passioni per imporla.”
Giovanni Boine
Giovanni Boine (1887-1917), altro scrittore nell’orbita de “La Voce”, nonostante la sua prematura scomparsa, che gli impedirà di assistere alla definitiva affermazione del nostro scrittore, scrive le recensioni di tre opere panziniane (Santippe, Il romanzo della guerra nell’anno 1914, Donne, Madonne e bimbi) che poi confluiranno in uno dei suoi libri più importanti: Plausi e botte.
Boine dichiara di ammirare, e di sentire a lui affine, l’umanità di Panzini; infatti del Diario predilige, alle analisi e ai pensieri apocalittici sulla guerra, la “complessità sentimentale” delle meditazioni panziniane che, tra pagine di “bruta cronaca” e di ansietà nevrotica, regala frammenti di “dolente bellezza”, paradossalmente proprio nelle sezioni più semplici e meno ambiziosi dell’opera, per esempio nei frangenti in cui Panzini si lascia andare alla melanconia e alla disperazione più rassegnata, vittima dell’abominevole indifferenza, riscontrata in molti suoi connazionali, persino “in mezzo al disfacimento della morte”.
L’opera prediletta da Boine è, però, Santippe. Questo poiché il Socrate anziano è una creazione originale non un semplice calco della gloriosa tradizione classica, non è “il memorabile uomo alla buona” di Senofonte e neppure “il loico instancabile” immortalato da Platone, bensì un uomo che, sebbene sia nella sua interiorità “pieno di dei”, si trova alle prese con le difficoltà e le miserie della vita: l’incomunicabilità con i cittadini di Atene causata dalla loro asperità e miseria morale e la faticosa routine del ménage familiare. In pratica, sostiene Boine, Panzini trasforma Socrate quasi nel suo alter-ego all’epoca dell’Ellade classica.
“Non ho qui che due timbri, che due netti, tondi, bolli a secco, uno per il plauso e l’altro per il marchio. Qui si bolla o si applaude, si approva o si riprova quasi senza gradazioni, quasi senza sfumature perché ad essere sincero, dicono, io dentro son fatto, squadrato, così: un poco con l’ascia.
Però ad Alfredo Panzini l’affronto del plauso non lo farò. Dirò che è l’uomo al mondo con cui mi pare a tratti di trovarmi meglio. E, si; codesto è un mondo un po’ complicato; è un mondo bizzarro dove a trovare la strada, quella che è nostra, si stenta. I più si fabbricano una marotte [dal franc.: fissazione, mania ndr]. Molti si metton gli occhiali, quelli rosa che cercò Baudelaire al vetraio, la volta che coi suoi vetri in spalla lo fece salire al sesto piano (ma quelli rosa non li aveva). E molti se li metton d’altro colore sebbene pochi, se non pel sole, li scelgon neri che sarebbero i più giusti. Alfredo Panzini viceversa il mondo, senza occhiali, lo vede all’antica, come un secolare savio che ha accumulato pazienza ed amaro, all’uso dell’api che accampano miele. Già; ha messo insieme quel miele agro-dolce di pazienza e di amaro che nei barattoli dei soliti speziali è chiamato ironia.
[…] Per Alfredo Panzini, se mai ho da dirlo, parlerò di sapienza non d’ironia. […] Cosicché a dire di uno che è sapiente, s’intende che dev’essere bonariamente ironico, perché esser sapiente vuol dire conoscere il bene ed il male, saper bene il gusto di questa insalata di molto male e di poco, ansioso, bene (aspirazione ideale) che è il mondo; già, è sentire che in fondo l’insalata sarà insalata sempre. Gli è questo sempre, questo irrimediabile, che mette la piega del sottile sorriso intorno alle labbra del saggio. La quale piega passa dalle labbra al discorso e vi resta; riflesso dell’anima dolorosa, signorile rassegnazione all’irrimediabile. Vedi bene ch’essa è anche nel discorso di Socrate.
Ed è così che Alfredo Panzini ha preso a benvolere questo sileno antico. Dire che in codesta Santippe Socrate è quello della tradizione sarebbe dir poco e non preciso. Non è il Socrate, memorabile alla buona, di Senofonte; e non è il loico instancabile di Platone. È, diremo, un Socrate i fatti della cui vita si riducono sulla misura dell’umorismo rassegnato di Panzini. Vedete il Convito com’è riprodotto qui; così tutto il resto. E dietro questo sileno tutt’intento, per obbedire all’oracolo, a far buoni e belli i cittadini che incontra, dietro questo sileno alla buona che ride volentieri e che se l’apri dentro è pieno di dei, la saggia Santippe che lo stratta giù alle miserie dell’umana realtà, al tran-tran del menage. Già Socrate è Socrate e Santippe non ne capisce un’acca e gli grida irosa che è un rimbambito. Panzini sta tra l’uno e l’altra; vede che l’uno ha ragione, troppa ragione, e l’altra non ha torto; ma soffre ridendo di codesta triste insalata della vita.
Non c’è mica un salto tra questo nuovo “romanzo tra l’antico e il moderno” e l’altre cose del Panzini. Nella Lanterna di Diogene, l’autore leggeva già Il Fedone o dell’immortalità dell’anima.; e dell’anima e della morte aveva su per giù il senso che n’esce di qui. Qui muore in fin di volume, un grand’uomo; là muore, in fin di volume, un uomo comune, un professore di latino. Ma il senso, l’eco che ti lasciano dentro questi due funerali, quello milanese fra la neve fangosa, e quello greco un po’ più eroico dapprima, ma con questa Santippe che va in giro con i figlioli in braccio a chiedere aiuti (e non ne trova) in nome di quel pover’uomo di suo marito ch’è morto, è un solo senso di rassegnato sconforto, di “così dev’essere; andiamo dunque. Che malinconia bizzarra la vita!”.
Si, ragazzi miei lo stile è una magnifica cosa qui, ma lascio voi a dissertarvi su. Io vi mostro per conto mio, l’essenza, il fulcro dell’anima di questo Panzini che è l’uomo v’ho detto con cui mi trovo meglio nella letteratura recente italiana e foresta. Eccolo qui il fulcro: in Santippe è dove fa dire a Socrate che va a visitar Assiolo moribondo: “Beh, sappi che d’ora innanzi la mia anima desidera la morte” – E nella Lanterna di Diogene che è l’altro libro quasi perfetto dopo quest’ultimo che è perfettissimo, completamente mondo di scoria e padrone di sé ( si, si anche le novelle son belle; ma io preferisco le divagazioni in prima persona e l’immediato discorso) nella Lanterna di Diogene il fulcro è dove, un bel giorno correndo in bicicletta l’Appennino, salta in mente all’autore di buttarsi in una fontana per rinfrescarsi, fare un bagno. Fa il bagno, e l’acqua è fresca meravigliosamente, “ottima è l’acqua”. Ma eccoti mentre la gode, gli par di vedere fuori una figura bianca, una maga «una maliarda bianca e tenerina” che gli dice ”caro, metti giù anche la testa, caro ubbidisci: giù la testa” – “Lo diceva con tanta buona grazia che mi venne la voglia di farle piacere e scivolare giù anche la testa.” – “Ma si muore così” le risposi al fine.” “E dove vuoi sperare di fare una morte più divertente? Va là caro, non ti lasciar scappare questa bella occasione” pregava la maga tenerina. “Capisco, ma è che ho degli affari in corso: e così subito, lì per lì, non mi posso permettere il lusso di morire, sarà per un’altra volta» – Però vestendosi pensa fra sé: «ch’io non mi debba pentire un giorno di aver perso l’occasione di trapassare così dolcemente?» e questa è anche quella ch’io chiamavo la sapienza di Alfredo Panzini.
Luigi Capuana
Luigi Capuana (1839-1915) è il primo grande autore a “scoprire” Panzini. Lo scrittore siciliano, con largo anticipo sugli altri colleghi, intravede in Panzini delle sicure qualità artistiche. Per questo dopo solo due opere, Il libro dei vivi e dei morti e Gli ingenui, Capuana nel 1898 gli dedica, in coppia con Grazia Deledda, un paragrafo della sua raccolta di saggi di critica letteraria Gli “ismi” contemporanei.
Capuana plaude alle limature che Panzini è riuscito ad apportare alla sua arte tra la prima e la seconda esperienza narrativa. Ne Il libro dei Morti, seppur “saggio notevolissimo senza dubbio”, il passaggio dal concetto alla forma risultava troppo cerebrale, mentre in un paio di novelle de Gli ingenui, La cagna nera e Da Novi a Pavia, e soprattutto nella protagonista di quest’ultima, Panzini dimenticando ogni artificio stilistico si trasforma da pensatore in artista. La chiusura del saggio suona quasi come l’incoraggiamento di un grande autore a un giovane di belle speranze.
“Alfredo Panzini è un artista che pensa troppo, o meglio, che lo lascia scorgere troppo. Ma, rassicuriamoci; in questo volume di novelle che seguono il suo primo saggio narrativo, Il libro dei morti, c’è già qualcosa che ci conforta intorno all’avvenire dello scrittore. Le quattro novelle che formano il volume Gli ingenui, sono lo svolgimento di uno stesso concetto, e sembrano scritte a posta, quasi altrettanti capitoli di un libro. Ingenua veramente, tra le quattro figure presentate, è soltanto quella povera donna che chiacchiera, chiacchiera in uno scompartimento del treno Novi-Pavia; le altre sono figure di persone, più che ingenue, squilibrate; ma non importa. Siamo lontani assai dalle vaporosità, dalle indeterminatezze del Libro dei morti. In quel primo saggio, notevolissimo senza dubbio, il concetto sembrava stentasse a condensarsi nella forma; rimaneva indeciso, tra qualcosa di fantastico e di reale che lasciava insoddisfatti. C’era, è vero, una sfumatura d’umorismo e d’ironia che pervadeva le pagine dalla prima all’ultima e dava loro una specie di grato profumo poetico; ma l’opera d’arte rimaneva ibrida, lasciava vedere apertamente la riflessione che avrebbe dovuto diventare forma viva, e non si era risoluta, alla fine, non si era abbandonata intera alla immaginazione, quasi diffidasse di lei o temesse di vedersi tradita e di esser quindi fraintesa.
E fin la riflessione non si sentiva sicura di se stessa; era un misto di pessimismo, di sentimentalismo, di codinismo, che evidentemente si trovava a disagio tra le ristrette proporzioni di un’opera d’arte. Tentava discutere per bocca di alcuni personaggi, per bocca del narratore, per mezzo dell’azione fantastica che cominciava e chiudeva il libro, ma aveva la coscienza di dover rimanere insufficiente.
[…] Certamente il contenuto di La cagna nera è assai più elevato di quel che si trova in Da Novi a Pavia; ma in questo però l’autore ha fatto il miracolo della creazione viva; e perciò la povera vecchia che racconta a sbalzi i suoi viaggi nella Merica e le sue speranze e le delusioni e le nuove illusioni, vale, come arte, infinitamente in più del raccontatore dei casi della rognosa cagna nera, simbolo del di lui destino. E per ciò la catastrofe del professore, che in un momento di delirio butta in mare tra gli scogli questa sua fatale compagna e assiste allo spettacolo dell’annegamento di essa ci lascia freddi e delusi. Mentre la povera reduce della Merica, che ha fretta di giungere a Mantova e crede di dovervi arrivare presto e apprende che dovrà aspettare ancora molte ore nella stazione di Pavia, sicché non potrà essere a casa sua per l’ora di pranzo; quella povera chiacchierona, che ha fatto sapere a chi voleva, e a chi non voleva udirli, tutti i fatti suoi e del suo Carletto, c’interessa e ci commuove assai più e rimane nella nostra memoria indelebilmente. Niente toglierà dallo sguardo dei lettori questa veramente ingenua creatura. E il Panzini dovrà essere gratissimo a lei che gli ha fatto fare il gran passo, il difficile salto con cui il pensatore si trasforma in artista. Dopo questo salto c’è da augurarsi che egli non torni indietro. Oramai egli è un altro uomo; ha dimenticato, ha buttato via ogni artifizio. Rimanga artista, nient’altro che artista sincero; voto schietto, augurio disinteressato di uno che ammira le squisite e forti qualità del suo ingegno, e desidera vederle presto messe in gran rilievo in un’opera d’arte più vasta e più poderosa.”
Eugenio Montale
Eugenio Montale (1896 – 1981) nel 1927, quindi due anni dopo la prima edizione del suo capolavoro Ossi di seppia, scrive per L’Ambrosiano una recensione a I tre re e gelsomino buffone del re. Dall’appunto che Montale muove ai critici “imbalsamatori” si comprende che Panzini fosse a quel tempo un faro per i giovani autori, i quali erano consapevoli del posto che si era ormai conquistato nella storia delle nostre lettere. A conferma di ciò, Montale lo definisce un poeta che “dal Parnaso non ha a temere di essere precipitato”.
Montale cerca di dimostrare che Panzini non è affatto il semplice cantore nostalgico del passato,”della spinetta contro il sassofono”, ma un artista pienamente moderno, che ha ben inteso la scarsa proficuità delle “intenzioni in arte”, attribuendo alla musica e al ritmo una funzione di primo piano rispetto alle idee e al significato.
“Per quanto il Panzini di questi ultimi anni si possa mettere tra i nostri scrittori più fecondi, e non vi sia libro suo che non desti al suo apparire una serie interminabile di recensioni, commenti e mormorazioni da parte dei referendari più autorizzati dei nostri giornali – e non è detto che i commenti scritti abbiano sempre il tono delle buccinazioni che non si scrivono, anzi è detto quasi sempre il contrario – non si teme di esagerare molto dicendo che intorno all’arte di lui poco è stato scritto finora che abbia valore di diagnosi e che colpisca quel centro vivo che in un artista genuino qual è il Panzini non appare mai al tutto inoffuscato; poco che non ritragga della fretta e del fastidio che gli artisti «arrivati» destano sempre, ed è la loro condanna, nella folla dei loro famuli imitatori o corifei: «So chi tu sei» è il crucifige col quale il lettore che si usa chiamare provveduto intende disfarsi del proprio autore, e ripiegarsi della noia che la concessione della laurea di poesia gli è costata. Non è a dire quanto il Panzini, che ha certo numero, non vistoso, di «motivi conduttori», si presti a una imbalsamazione così fatta, con vantaggio suo, che dal Parnaso non ha a temere di essere precipitato, e del lettore, che si conferma nell’ammirazione delle proprie qualità critiche e interpretative. Si sa che sotto il nome del Panzini vanno intorno alcune diadi poco fortunate, alle quali sarebbe affidato il compito di rappresentare il cozzo dell’antico mondo culturale umanistico e umano col nuovo ordine novecentesco, meccanico sportivo e calcografico. Il dilemma, adunque, the doctor’s dilemma davvero, sarebbe rappresentato dall’antitesi del valzer Boston e della giava, della spinetta e del flauto da un lato, e dal chapeau chinois e il sassofono dall’altro, della calza di lana in opposizione alla calza di seta, della filologia avverso la reclame luminosa e la Vita di Rodolfo Valentino. E davvero, se le cose stessero a questo punto e se nel Panzini si dovesse vedere veramente una sorta di Pangloss alla rovescia di cotesta forza, le conclusioni sullo scrittore sarebbero piuttosto malinconiche. Ma poiché la realtà è un poco diversa, e nel Panzini che nel suo Dizionario moderno, uno dei suoi lavori più significativi, ha raccolto una selva di neologismi e di parole di conio quanto mai avventuroso, tutto si può vedere fuorché il semplice tipo del laudator temporis acti, agli imbalsamatori degli artisti converrà prender atto che la mummia continua a camminare e che le recenti notizie del «morto» ci parlano delle sue ottime condizioni di salute.
A chi voglia intendere qualcosa intorno al Panzini e all’ultima sua arte, che con la sua maniera più antica ha pur stretti rapporti, ancor oggi conviene rifarsi a quelle parole di Renato Serra nelle «Lettere», che presentava Panzini come l’uomo che s’era presa «la cura di scrivere alcune delle novelle che il Carducci s’era “dimenticato” di stendere». Queste parole del Serra (i giudizi del quale meritano ancora attenzione, per quanto le approssimazioni e le ingiustizie non manchino in quel suo volumetto), colpiscono molto bene il fondo dell’arte panziniana fino almeno alle Fiabe della virtù. Il Carducci è stato l’ultimo scrittore nostro nel quale la coscienza austera, ma un po’ ingenua, del vates si sia mantenuta integra sino alla fine della propria carriera poetica: in lui l’unità della vita e dell’opera fu perseguita fino agli ultimi anni in modo che ormai non sarebbe neppure più possibile immaginare. Si vedano le difficoltà veramente insuperabili alle quali sono andati incontro quei critici «energetici», «dinamici» o semplicemente «spiritualisti» che hanno voluto interpretare vita e opera del D’Annunzio sotto l’angolo visuale di un «totalismo» di questo tipo; e si consideri l’estrema facilità con la quale vita e opera, nel Carducci, si sono lasciate comprendere, e magari confondere insieme nei giudizi della critica ufficiale. Così che è possibile ancor oggi vedere uniti nella stessa parabola e partecipi delle stesse esigenze, il Foscolo e il Leopardi col Carducci, poeti che non andrebbero ricordati insieme a nessun patto, senza volersi straniare da qualsiasi intelligenza dello «stupido ottocento».
Nel Panzini, scrittore di ceppo carducciano, si può sorprendere meglio che in altri autori di formazione più moderna, la corrosione che lo spirito critico e lo scetticismo che ne consegue operano sulle forme di un primitivo equilibrio umanistico. In questo senso, e pur tenendo presenti le infinite differenze dei due temperamenti, lo svolgimento del Panzini si è delineato in un modo ben diverso da quello che è caratteristico di un altro scolaro del Carducci: il Pascoli, nel quale si osserva, dopo le prime sue prove a una vena in minore, una presa di coscienza sempre maggiore del proprio «messaggio» poetico. E non importa studiar qui se come, a quest’accrescimento dei propositi e delle intenzioni, abbia corrisposto davvero un autentico sviluppo di poesia liberata. Ma nel Panzini, come il Pascoli arrivato tardi alla notorietà e al successo, dopo una giovinezza di fedeltà ai suoi ideali di patetico umanismo in margine alla vita, è facile vedere che di messaggi e di profezie non si può parlar più, tosto che l’artista prenda coscienza maggiore delle proprie virtù e delle possibilità d’arte che il tempo nuovo che recava in se. Di qui, uno scetticismo sempre maggiore verso il mondo, pur sempre dolorosamente vivo in lui, che nutrì la sua infanzia, e un attaccamento sempre più forte ai frutti dell’arte considerati e magari idoleggiati in se, con un gusto che se è sempre stato pericoloso, lo è oggi più che mai. Perché è vero, purtroppo, che nell’arte null’altro va ricercato che non sia l’arte; ma è anche vero che all’artista può talora giovare l’ignoranza di questa verità.
Le trasformazioni avvenute in questi anni nell’arte di Alfredo Panzini, che si è arricchita di timbri, di fratture e di movimenti, ma ha perduto nella linea e nell’intima compattezza, sono perciò mutazioni di animo. Lo scrittore s’è preso al suo stesso gioco, e in verità nel suo disgusto per il novus ordo c’è troppo d’interessata e compiacente curiosità perché si possa mandargli buona la sua pretesa polemica. Perciò Panzini non solo rappresenta, ma, per nostra fortuna, consente; e non consente solo nell’atto della rappresentazione, com’è troppo ovvio; il suo interesse dura anche dopo, gli impegna l’animo, lo segna di pieghe nuove. E si può giurare che la sua parte di testimone del trapasso da un modo all’altro della vita borghese lo interessa ormai più della fede sicura ma un po’ ristretta di avvocato dell’ancien regime. È necessario, tuttavia, ammessa la legittimità dello sviluppo dell’arte panziniana, quello che va press’a poco da Cerco moglie! ai Tre re e Gelsomino, riconoscere che il Panzini ha ritrovato raramente, nelle ultime avventure, la compatta felicità delle Fiabe della virtù e della Lanterna. Un sufficiente equilibrio tra il vecchio assestamento e la gracile nervosità delle nuove ricerche è ancora in alcune delle Damigelle e nella Pulcella; altrove, e più spesso, il desiderio della testimonianza, l’interesse polemico, e una certa blague, di ultimo arrivato della modernità, gli hanno presa la mano. La linea allora s’è spezzata, senza ragioni profonde, il vocabolario s’è fatto convenzionale a forza di agudesas, e una sorta di retorica professorale, per quanto alla rovescia, s’è fatta strada. Inutile ricordare questi libri di fianco, in nessuno dei quali, del resto, mancano pagine fortunate. Quanto alla storia di Gelsomino, poiché a quest’ultima conviene, per finire, chiedere la riprova delle nostre poche osservazioni, si direbbe che quello che v’è di più simpatico nel nuovo volume è il fatto, palese in ogni brano, che l’autore non ha avuto in mente un disegno preciso del libro. Lo dice anche la scheda editoriale: «L’autore dichiara di non saper neppur lui quello che ha voluto dire».
Buon segno, in fondo, per chi ha poco fiducia nell’effettualità delle «intenzioni» in arte: segno che lo scrittore s’è fatto guidare, più che altro, da un impulso prepotente di ritmi e di fantasie. Qualcuno ha ricordato a proposito di Gelsomino la Rivolte des anges del France; e affine è veramente il bisogno spirituale da cui queste opere han tratta origine. È il tentativo di una specie di Summa dell’esperienza non solo diretta e lirica dell’autore, ma altresì di quella intellettuale e riflessa. Un desiderio di complessità è alla radice di creazioni di questo tipo; il desiderio, fra l’altro, che al disfarsi del quieto e raccolto mondo primitivo non manchi certo barocco splendore intellettuale, certa diffusa acredine di tombe lontane che si rispondano. Coelum perit, certo: con autentici angeli decaduti nel romanzo franciano: con uno sguardo doloroso al mondo delle antiche canzoni di gesta nel libro di Gelsomino. Questa parte del racconto è venuta spesso felice al Panzini, che dev’essersi posto sotto la protezione del suo Boiardo; e non era facile aver la mano leggera in materia. L’altra che rappresenta il nuovo mondo degli sky-scrapers, posto a contrasto col primo, val meglio per qualche pagina che per l’insieme. Ed è possibile che, alla fin dei conti, tutto il libro appaia più come un’addizione di «pezzi», alcuni di primo ordine, che non una verità: le poste ci son tutte, ma il conto, si direbbe, torna male. È un po’, questo sospetto sul conto, quello stesso che assale il lettore della deliziosa Rivolte. Nel Gelsomino il disagio, bisogna pur dirlo, è accresciuto assai; e tuttavia chi ponga mente alla negra solennità di certi episodi e alla nuova musica, strascicante e quasi intasata, che governa qui la danza dei pastori; converrà che se quest’ultimo Panzini ci può far rimpiangere il primo in tutto ch’è quadratura e schiettezza di risultati, non è possibile non rendere omaggio all’accrescimento d’inquietudine interiore del quale siffatti motivi testimoniano.
Il nuovo equilibrio è raggiunto solo a momenti; è vero; ma non è scadimento dell’artista, bensì complessità maggiore di propositi; e poco importa che si tratti di propositi ancora oscuri allo scrittore stesso. Questo lodatore del passato risente del proprio tempo come e più di tanti giovani. Leggete, per esempio, la descrizione che comincia: «Una luce riposata e blanda scendeva dai lampadari sui candidissimi lini delle tavole, dove si ergevano piramidi di mele pallide come pelle di donna ardente, pere punteggiate come verdi serpi, pesche rotonde come natiche di putti quattrocenteschi, rosse come la voluttà. […] E con arte grandissima, e alternati ai doni di Pomona, erano i trofei della grande arte culinaria: pignoccate, torroni, confetti, pan speziale, cioccolate che piangevano dai neri occhi lagrime di crema e di rosolio».
Frammenti di questo genere il libro ne conta moltissimi. Dov’è più, qui, il novelliere di stampo carducciano? E dove è più il vecchio umanista ornatamente didascalico, nell’autore che dichiara ignorare ormai, di se, mete e propositi? È soltanto nello scrupolo dell’artefice e nell’amore per le belle immagini dell’arte: scrupolo e amore che gli anni non hanno spento, ma piuttosto acuito. La differenza è che ormai lo scrittore cerca se stesso nella sua musica più che nelle sue idee. Suoni ritmi fantasie che escono dall’oscuro, lambiti ancora dall’ombra, e non chiedono se non ritornarvi. E …. il resto? Pace. The rest is silence.”
Pier Paolo Pasolini
Quanto Panzini fosse impopolare tra le file della sinistra italiana ce lo testimonia Pier Paolo Pasolini (1922-1975) in uno scontro a distanza con un suo lettore di “Vie Nuove”.
La disputa ha origine da una lettera di un anonimo (chiamato da Pasolini “dannunziano in pantofole”) che contesta gli aspri giudizi di Pasolini e di gran parte della critica militante italiana, su Gabriele D’Annunzio, a suo avviso, un modello stilistico insuperabile.
Il lettore invita quindi Pasolini a raffinare il suo rozzo bagaglio linguistico leggendosi, tra gli altri, proprio Alfredo Panzini.
Pasolini risponde piccato che tale tipo di considerazioni esprime bene la mentalità piccolo-borghese che costituì la base culturale sulla quale si affermò il fascismo, infatti “la cultura italiana della prima metà del Novecento è una ben misera cosa: è un sottoprodotto provinciale della cultura post-romantica e decadente. Su questo Gramsci ha scritto delle pagine dal valore assoluto.” “Quanto a Baldini, a Panzini, Brocchi, Gotta, Monelli e Ansaldo, sono nomi che io le consiglio di scrivere sulla sua lapide”.
Vie Nuove, n. 29, anno XVI, 22 luglio 1961. Poi nella raccolta: Le belle bandiere, Editori Riuniti, 1977.
Clemente Rebora
L’articolo di Clemente Rebora (1885-1957) non è propriamente un intervento critico, ma un atto di solidarietà compiuto da un insegnante verso un collega. Lo spunto per questa lamentazione è offerto a Rebora dall’uscita di un manuale di retorica, ad uso strettamente scolastico, curato da Panzini.
Il testo descrive perfettamente la condizione avvilente del letterato idealista alle prese con le esigenze e con il pragmatismo della società moderna. Abbiamo visto che per Renato Serra il mestiere del professore aveva costituito il background fondamentale per determinare la malinconia e lo struggente sentimento di inappagamento di Panzini. A parte la simpatia per le comuni sventure, in Panzini, Rebora riscopre il valore civile di un corretto uso della lingua italiana, una fede che Panzini aveva ereditato dal maestro Carducci.
“Chi abbia insegnato materie letterarie (italiano, storia, geografia, diritti e doveri) nelle nostre scuole tecniche, sa cosa significhi lavorar con faticoso buon volere questa landa ingrata, dove la nemica impotenza del clima non versa pioggia feconda sul terriccio pietroso e n’esaurisce anzi la poca linfa sotterranea in un intrico di gramigna – già così facile a vegetare – rendendo difficilissimo ai contadini (pardon, ai professori) di mitigare, qualora lo volessero, la siccità e la casta lussuria delle male erbe.
Ho detto delle tecniche, in generale; ma voglio alludere soprattutto a quelle grandi città, massime industriali, dove l’arsura e il dissolvimento delle famiglie-scolaresche si torcono con più acre infecondità nel contrasto fra l’impennarsi di una vita nuova e l’ebete adagiarsi pingue del lasciar com’era.
Il sangue della nostra continuità e forza di nazione, il circolare caldo del divenire attuale, l’elaborazione assidua dell’intelligenza, spingerebbero chi ha nerbo e senso e polpa a materiare di succo nutriente anche l’umilissima sua quotidianità: ma, cuccia lì! Qui sei il pedagogo tra bambini, e illusione superba impraticità è la tua: se vuoi, fa il mestiere o drappeggiati come richiede il galateo didattico; altrimenti fuori dai piedi: o meglio, restaci tollerato, perché non sapremmo mai che gonzi che pigliare, se te ne vai. Così dicono, più o meno palesemente, governo, giudici di concorso, non pochi colleghi arrrivandi, genitori, scolari, gente perbene e soprattutto gli inesperti espertissimi competenti di professione, e potrebbero avere (e hanno) anche ragione, specialmente se non avessero torto.
Io non giungo per ora all’ostracismo di tutto o quasi il vigente sistema di rimpinzastecchi, o addirittura allo scetticismo pregiudiziale verso ogni funzione pedagogica un po’ elevata; nel qual caso sarei già andato – non potendo altro- a far lo spazzino o il superinventore dei valori o che so io. Sono ancora (ma non ipoteco l’avvenire) uno scimunito schiavo vigliacco che pensa esser una nobile e in qualche modo utile cosa il prodigare – oltre l’impulso economico- le proprie energie superiori (o le facenti funzione di esse) anche nel mediocre vecchio mondo di quelle forme disprezzate e superate ormai dai liberi veggenti; e, senza aver nessun cristiano ardore, l’esperienza – che ho poca e insufficiente per gli adunatori di fatti – tanto più che mi ha riconciliato con la possibilità educativa quanto meno seppi esser bravo nei miei tentativi: allo stesso modo che, proprio dove la vita dell’oggi mi batteva o m’inviperiva, ho sentito la ragione della sua necessità. Ma io vorrei che mutasse l’orientamento, il movimento e l’espressione della cosa, come è di tutto ciò che ha realtà soda e perenne; e vorrei che coloro, i quali sono abituati a stringer le visioni i giudizi dalla soffice noia del loro spirito automobilistico, in una fulminea vertigine che par sintesi alta, vero del certo, ed è spessissimo svariar disperso del niente, camminassero a piedi a veder cosa c’è di nuovo con quieta attenzione acuta senza complimenti; anche a costo d’impolverare o impillaccherar il terso specchio delle loro scarpe forgiate per i pavimenti lucidi o d’immiserire il loro passo fatto per le settemila leghe.
Preambolo-soliloquio, divagazione sinfonica che vuole (o vorrebbe) finir qui nel senso della sua modestissima cadenza: in una piccola nota sulla retorica di un uomo stimatissimo per tutt’altre faccende, di un uomo che accenna con più di coraggio e coscienza e conoscenza di altri alla necessità di liberar tutti dalla nausea di ammanir a palati guasti o desiderosi di vivande sane il rimettiticcio degli ingredienti elencati pesati rimpastati dai manuali di stilistica o precettistica, di questi Artusi a rovescio, che pur avrebbero la lodevole intenzione di rinvigorir la salute dei maschi e delle femmine che dovranno poi sentire e vivere italianamente.
Parlo di Alfredo Panzini: il quale sembra aver sofferto queste e ben altre esigenze, filtrate e purificate attraverso la sua particolare struttura d’uomo, di pensatore, d’artista e di professore. Egli – non so per quale contingenza – ha dato alle stampe, da poco più d’un anno, un “Manualetto di Rettorica” (e il diminutivo ha forse la sua intenzione) ad uso delle scuole tecniche e complementari conforme ai vigenti programmi (e il corsivo ha, oltre che la necessità, fors’anche una propria voglia di essere): operetta che nasce da quella sottospecie della sua attività, la quale ha trovato, per esempio, espressione nel bellissimo Dizionario moderno.
Il dissidio – che mi par entri come elemento caratteristico del Panzini artista – fra aspirazioni e concretezza, il passato e il presente avvenire, la stima e il discredito della tradizionalità, l’intuizione del necessario e la circonferenza (anzi, le circonferenze), la serietà dell’inutile e la ragione dell’utile, che lo conducono a giustificarsi continuamente per salvar l’uno e l’altro, perché ambedue hanno parte di vero; che lo spingono a sorridere – con interiore consapevolezza non lieta, e insieme, in qualche modo, non triste – di quella vita della carne e dello spirito che sente essenziale e a un tempo irresolubile nella diversità del divenire: tutto questo è sottinteso e quasi trapelanella modesta scolastica stesura dell’umilissima retorica “ad uso delle scuole”. Qui, però, tutto è semplificato e piegato senza rotture all’abitudine della nozione dell’ambiente del costume letterato e dottrinale. Ma è anche un richiamar alla sorgente; e sotto la disinvolta facilità metodica della disciplina offerta e dichiarata agli allievi, tutto un giudizio lavora a far sentire in sordina il ben altro del pensiero e dell’arte e dell’humanitas. Lavorio posto in risalto qualche volta dalle noticine riservate; più spesso dal contegno di talune pargolette inosservabili a chi legge ma intese da chi pensa; spessissimo dalla scelta disposizione movenza dell’elocuzione e del dettato. Lavorio che palpita dalla prefazione alla chiusa: dall’attribuire, mentre leva, importanza alla proficuità del suo e del “numero non facilmente numerabile dei testi esistenti”, al metterci in guardia contro l’opinione che noi possiamo formulare intorno agli scrittori molto vicino a noi o viventi. Ma questo sentimento di complessità, e qualche volta di contraddizione, giunge come monito all’insegnate mentre sorpassa i ragazzi; e anzi li riposa in un tepore di famiglia di simpatia e (quasi) di vita.
Dichiara subito che la retorica –pur concepita nella sua accezione più onesta serve soltanto come esercizio intellettuale e istrumento facile di varia cultura, e non ad essere scrittori; perché «scrivere bene vuol dire pensare bene e pensare molto, avere molti studi, molta esperienza della vita insieme con molto ingegno, sentimento e fantasia». È quindi cosa di pochi: «come, ad esempio, non tutti possono esser belli. Però anche chi non è bello per natura, può essere pulito e garbato». E noi lo dobbiamo «giacché scrivere in modo conforme all’indole e alla dignità della nostra lingua è dovere di buon cittadino». E «in questo compito modesto la retorica può offrire qualche buono ed utile ammaestramento; essa serve inoltre a disciplinare l’ingegno e a fissare i criteri per giudicare le opere dell’arte» (il corsivo è mio, e forse estrinseca l’implicita intenzione).
Il suo buon senso umano incrina e s’ingemma poi qua e là in fuggevoli osservazioni: nota che «purtroppo (sic) molti hanno un cuore così piccolo che si sente appena, e v’è chi ha un sasso invece di un cuore»; e svaluta così non tanto la retorica insegna-tutto di un tempo e di ora, ma qualcosa di più e di più vasto.
[…] Parlando poi della lingua italiana, l’accarezza e l’esalta; ma non la chiude in un rigidismo apologetico (lui, psicologicamente conservatore); sente che i dialetti «sono la stessa nostra lingua nazionale. Noi dobbiamo parlare e scrivere bene l’italiano; ma non disprezzare i dialetti», «specie di serbatoio illustre ed antico del patrimonio delle parole» che trasmette alla lingua «forza e vivacità»: sente la necessità e (con nostalgia) la bontà dei neologismi, e dichiara l’idiotismo “bellezza, forza, vita di una lingua”, colpendone soltanto l’abuso o il cattivo uso.
Anche la propria esperienza d’artista s’individua in qualche rapido guizzo nella continuità liscia del manuale; per esempio, dove osserva in una nota: «Quando nello scrivere si fa uso di frequenti e sottilissime ironie, si ha quella maniera speciale e difficile di scrivere che è detta Umorismo … a prima vista fa sorridere e poi pensare e meditare. È arte rara di scrivere, poco comune e poco pregiata in Italia; dove per umorismo il popolo intende cose grossolane, che fanno ridere» (ehm, quel popolo). E altrove, accennando alla novella: «il suo scopo è quello di dilettare e anche (sic) di ammaestrare»; e in nota: «Nella novella moderna, invece. S’introducono i personaggi ad operare, come in un dramma, e perciò il dialogo vi abbonda (anche troppo!)».
Altrove fa sentire la differenza spirituale tra poesia e prosa, con sottile spontaneità penetrante; rispetta la “moralità” necessaria ad un testo testo per le scuole, attenuandola con riservatezza squisita : «Il romanzo, in genere, non è però troppo adatto ai giovanetti. Certe verità o certe fantasie, assorbite dal cervello non maturato dall’esperienze, possono creare grave danno». Vorrebbe toglierci dall’isolamento mummificato dei generi letterari italiani, e lo accenna in brevi note o in rapide esemplificazioni, citando autori anche stranieri; fa rientrare nell’ambito della funzione legislatrice della storia letteraria anche nuovissime espressioni generalmente radiate senza attenuanti; perciò, dall’occulto rimpianto della grandezza artistica specialmente greca del ‘300, non sdegna scendere all’enumerazione di quelle forme che non arte in modo assoluto, ma in qualche modo si: dal telegramma all’articolo del giornale.
Sembrerà sproporzionato questo dilungarmi intorno a un’opricciuola che vuol essere soltanto un libro di testo; ma due ragioni – oltre tutto il resto – mi hanno spinto: perché considero questo Manualetto di Rettorica un’opera d’arte, beninteso a modo suo; perché sarei lieto che fosse dato aiuto ai professori di buona volontà, nei loro sforzi di rinfrescamento scolastico, dagli ingegni ricchi di una simile specifica disposizione. È vero che l’introdurre e adottare libri buoni nella scuola è, oggi come oggi, quasi ancor impossibile, ma per diritto o per sghimbescio sarà più facile nell’avvenire: e, se non altro, avvierà noi insegnanti di truppa a esser meno uggiosi e rompiscatole verso i nostri scolari, e (soprattutto) con noi stessi.”
Federico Tozzi
Federico Tozzi (1883-1920) nel recensire il Viaggio di un povero letterato coglie l’occasione per indicare i mutamenti incorsi nell’arte panziniana nel decennio trascorso dal primo viaggio, La lanterna di Diogene.
Come prima cosa Tozzi è colpito dal totale rovesciamento dello stato d’animo del Panzini nelle due opere. Mentre nella ariosa Lanterna, i rapporti del Panzini con il prossimo erano, a parte alcune naturali e umane incomprensioni, sostanzialmente cordiali e armoniosi, nel Viaggio invece sono oppressi da una soffocante sensazione di incomunicabilità. Il libro, si ricordi che fu scritto appena un anno dopo la fine della “grande guerra”, è percorso per tutta la sua lunghezza da un’angoscia senza speranza, che si ripercuote pure a livello stilistico, imponendo periodi brevi e asciutti, al limite della sentenziosità. Nonostante l’amicizia che, come afferma Tozzi nell’incipit del suo intervento, li lega, lo scrittore toscano non pecca certo di obiettività, biasimando la “prepotenza egoistica” che ha spinto il Panzini a concentrarsi esclusivamente sui suoi monotoni conflitti interiori, perniciosi circoli viziosi conclusi immancabilmente da una conclusione fintamente arguta e ironica.
“Non è raro, dicevo, che l’ironia del Panzini tagli di netto il sentimento che egli aveva voluto fingere; e, allora, si ritorna a leggere qualche riga a dietro, per gustare meglio; sentendo che quel taglio è giusto e scende proprio nell’attimo opportuno. Ma non so come egli non si sia avvisto che non sempre riesce a imboccare una pagina dopo l’altra con un uguale continuità lirica. Qualche volta, perciò, fa l’effetto che il Panzini abbia voluto rimpinzare troppo e a caso le impressioni di questo suo secondo viaggio, che infine è un pretesto a divagare mettendo insieme una specie di enciclopedia intima e lirica; che può raggiungere i misteri più delicati della poesia; servendosi appunto del suo carattere frammentario e sparso, per ricostruirsi in una nuova e più leggiadra trama spirituale. Ma in questo del Panzini ci sono, ho detto, anche i buchi, i quali non si possono riempire così troppo alla buona.
Il valore di questo libro consiste nella rapidità di passare da un punto all’altro dei nostri sentimenti; come sognando, da una cima all’altra dei monti, con un passo solo. Ma il pensiero lirico, quando è riuscito a prendersi, qui sbocca piacevolmente non solo negli spunti dello spirito ma anche nella realtà dei paesaggi e delle altre cose; con un alternarsi fluidissimo di sensazioni ritagliate bene e messe forse senza troppa malizia, anche quando il Panzini ha creduto di averla. L’ironia del Panzini non va sempre a proposito, perché non sempre gli riesce a liberarsi da certe figurazioni troppo personali. Bisognerebbe ch’egli riuscisse a fare a meno di una certa sua prepotenza egoistica, che può essere anche simpatica se la si guarda di per se stessa, ma che proibisce di scendere con continua ampiezza nella realtà esteriore; ed ecco perché gli sbalzi del libro e anche i suoi errori resi anche più evidenti dal contrasto che fanno proprio appiccicati alle cose veramente e dolcemente belle. Cose quasi indimenticabili nella loro perfezione rappresentativa; sia pure che restino piuttosto dentro la realtà sintattica del periodo che la realtà contenuta. Voglio dire che anche in questi momenti di sicura ispirazione, si sente nel periodo quella lisciatura di pomice; e la bellezza raccontata non è quasi mai esente da quella sensazione di lavorio abilissimo e sobrio che vi ha lasciato sopra il Panzini, il quale vuol dominare quello che egli dice; non per un istinto estetico, ma piuttosto per un’abitudine tenace a studiare, che ricorda alquanto la legnosità e l’impaccio della volontà scolastica. Egli, certo, dura molta fatica a rendersi libero da tutte le difficoltà che prima s’impone. Egli ha paura a darsi senza sottintesi e senza una velatura d’ipocrisia cerebrale: è un timido vigoroso e perfino saccente; un violento nelle cose delicate e minime; uno che ritrae il cuore quando invece bisognerebbe darlo. Perché ha una diffidenza elegante, quasi comica. Il Panzini che pare fatto per ninnolarsi con i sonetti, nei romanzi, anche se sono piuttosto pretesti di romanzi, si trova non interamente preparato a rispondere a una logica esteriore che è più forte e maggiore della sua. Allora, egli diventa ironico; si vuol trastullare, preferendo dire un’altra cosa piuttosto che quella più spontanea. Egli, insomma si è fatto dentro di se un’arguzia sedentaria, che qualche volta è troppo insensibile e autoritaria. Ma la sua arguzia di buon seme, quella che fa sorridere con simpatia umana, sembra paffuta come un ragazzo; che ha negli occhi la gioia di farsi perdonare. E le parole della prosa escono così bene acconce, così contente di doversi tenere in fila, pur sotto il corruccio del pedagogo dietro le lenti del Panzini, che sembrano quasi per cantare quando invece si appagano di parlare. Ma se si sta attenti a come parlano, si sente subito che il dolciastro è effetto dell’educazione che, per essere troppo rigida e fanatica, qualche volta può sembrare insolente ad un lettore che non vorrebbe ma i trovare difficoltà a se stesso. Ma il Panzini tira via, non ci bada; anche se dentro di se ha il dubbio di avere oltrepassato le sue intenzioni. Allora si ride di compiacenza con lui quando s’incontrano bellezze profonde e delicate come questa: «Ma quando di luglio, alle quattro del mattino, spalancavano gli scuri, e dalla finestra entrava, io non so bene, se la luce dei pianeti e delle stelle o del nuovo giorno, e poi il fiammeggiare dell’aurora dal mar: era una gran letizia, una gran frescura ….». Dove la letizia e la frescura si sentono, ora, trasportate senza intoppi nella prosa; e noi ne restiamo come sorpresi.
Ma volevo dire che anche nelle sue migliori novelle, il Panzini resta sempre un dotto poeta che si sorveglia e sa prendere, di periodo in periodo, tutti gli scherzi piacevoli, e serenamente infantili della sua fantasia; che si potrebbe chiamare capricciosa anche quando vuole incedere quasi a stento in una solennità pedantesca. Fantasia scorrevole come un brivido anche quando egli la vuol serrare in un’austerità di stile cattedratico e gonfio di sapori culturali. Perciò le figure affiorano lievemente sopra la superficie dura, quasi gelosa, tornita secondo i più buoni e accettati precetti del bello scrivere. Ed ecco anche perché il Panzini ha paura di se stesso ad abbandonarsi all’umanità degli altri e all’autorità della cosa. Egli è un dolce e sapiente egoista; che vuol attenersi, anche quando non ce n’è bisogno, a certe precauzioni di diffidenza; che però gli negano di buttarsi a una più vigorosa ampiezza. Egli ha certi scrupoli manici che non hanno niente a che fare con la verità dell’arte; ed ecco anche perché s’è dato ad accentuare tutte le parole che nessuna pronunzia potrebbe sbagliare: né pure i ragazzi che imparano a leggere. Ed ecco perché non ha potuto trattenersi da mettere a piè di alcune pagine di questo libro certe noticine o postille, cinchiatture d’interesse privato, in carattere più piccolo, che non trovano per noi nessuna spiegazione attenuante. E se nella Lanterna di Diogene c’erano cadenze che facevano pensare al Carducci, qui ci sono piccolezze e raffinatezze pettegole che ricordano quel che c’è di spiacevole e di antipaticamente casalingo nel Pascoli. Due lunghe sintesi, dunque, che sono passate nell’esistenza e nell’anima del Panzini. E qual è il Panzini autentico?
Secondo me, egli è continuamente preoccupato più di quel che fanno gli altri che di se stesso; e il Panzini autentico bisogna cercarlo –e si trova- in quelle sue silenziose elaborazioni spirituali che gli permettono di affrescare i suoi libri quando uno meno se lo aspetta; e sono soltanto polle iniziali di un pensiero che non si perde e resta sempre eguale a malgrado del gran numero di tutti questi spezzettamenti. Non c’è un vero movimento, che riesca ad effettuarsi; ci sono tanti scatti, tante mosse, che si equivalgono tra se; tante promesse leggiadre, a cui non bisogna chiedere quello che non hanno.
Riassumere tutta l’opera del Panzini è ormai possibile; perché si può prevedere che le sue qualità non cambieranno più. C’è, dunque, una grandezza vera, ma frammentaria e desolata; una grandezza che resta modesta perché non si decide mai a staccarsi da quel puntiglio troppo personale e ristretto ad elementi che confondono l’artista con il calcolatore incomodo.”