Alfredo Panzini descritto da chi lo ha conosciuto meglio: Antonio Baldini, Clelia Gabrielli, Marino Moretti, Luigi Pasquini, Aldo Spallicci, Manara Valgimigli.
Antonio Baldini
Antonio Baldini (Roma 1889-1962) iniziò a collaborare a “La Voce” nel 1912 e in seguito fu tra i più significativi esponenti de “La Ronda”. Collaboratore de “La Tribuna” e del “Corriere della sera”, dal 1931 fu redattore e, per trent’anni quasi unico compilatore della “Nuova Antologia”. Salti di gomitolo, pubblicato nel 1924, è il suo titolo più noto.
Presso la Biblioteca comunale di Santarcangelo è custodito dal 1972 il “fondo Antonio Baldini”, frutto della cospicua donazione della figlia al Comune. Fra i tanti libri, manoscritti, ritagli di giornali, bozze di stampa, disegni, stampe e carte geografiche, è notevole il materiale relativo ad Alfredo Panzini.
“Dagli scrittori come scrittore, e dalle scrittrici, anche come uomo, non fu mai stimato un essere “pericoloso”. Non già ch’egli fosse, fisicamente, uomo da buttar via! Solidamente piantato, eretto sulla persona fino ad età ben avanzata, nella sua chiara onesta faccia gli occhi azzurri avevano una luce rinfrancante. Né è da dire che le donne non lo interessassero; ma forse proprio perché lo interessavano troppo, sempre, e tante, egli mancò di quella facile e impudente intraprendenza (quando non guasti) accomoda tutto per la via più spiccia.
Uno dei più graziosi ricordi di vita letteraria io l’ho d’una scampagnata fatta nel fuoriporta romano in compagnia di Panzini, del suo editore e d’una scrittrice che, vent’anni prima, si diceva essere stata bellissima, piacentissima, biondissima e spiritosissima. Posammo sotto il pergolato d’una osteria e fu lì, davanti ai litri del biondo Frascati, che, lasciandosi andare tra patetico e burlevole sull’onda dei ricordi del suo buon tempo milanese, Panzini finì con lo scoprire certe vecchie batterie: come e quanto cioè la nostra compagna di gita gli fosse allora piaciuta e come e quanto nel suo segreto l’avesse un giorno sospirata e desiderata. Madama, ascoltando, faceva certe sue risatine tentennando il capo e, con un lampo negli occhi che la ringiovaniva di tutti quei vent’anni intercorsi, se lo stava a guardare con un affettuoso ironico compatimento. E quando il vecchio amico ebbe finito di confessarsi, “Ma caro Panzini” ella disse, “chi vuol cogliere qualche frutto bisogna almeno che faccia un piccolo sforzo per salire sull’albero!”.
Panzini aprì la bocca per rispondere, ma tacque avvilito. E non trovò di meglio ch’empirsi il bicchiere, e beverci sopra.”
(Tratto da: Antonio Baldini, Buoni incontri d’Italia, ne Il libro dei buoni incontri di guerra e di pace, Sansoni, Firenze, 1953).
Così, invece, Antonio Baldini descrive Alfredo Panzini alla Fiera di Santarcangelo:
“… Tra il mugghio e lo scampanio dei bovini, i nitriti, i belati, le strida e l’urlo degli imbonitori e la cantilena dei cantastorie, lo rivedo solido, dritto, quadrato, col viso incendiato dal gran sole di mesi e mesi di campagna, con un pastrano grigioverde dal bavero di gatto, il bastone sotto il braccio, il sigaro tra le labbra, che con un mozzicone di matita tira le somme sopra un taccuino, tra vendite e compere della mattinata…”
Clelia Gabrielli
Sergio Zavoli: “Lo scelse Panzini il colore di questa casa?
Clelia Gabrielli: Sì! Sì e no… un po’ con il mio consiglio.
S.Z.: E la posizione chi la scelse?
C.G.: Ah lui, la scelse lui!
S.Z.: Perché, poi, la chiamarono la “casa cantoniera”? Chi fu il primo a chiamarla così?
C.G.: Fu Antonio Baldini, al quale, a proposito della “casa cantoniera”… scrissi una letteraccia, come dice mio figlio” Vero, Piero?
S.Z.: Signora Clelia, nessuno meglio di lei può toglierci un dubbio: il sarcasmo, l’ironia che sempre accompagnarono Panzini, da che cosa traevano origine?
C.G.: Dalla vita un po’ infelice che ebbe nell’infanzia e nell’adolescenza, tanto più dolorosa per il fatto che lui stette in collegio otto anni, pregando la famiglia, scongiurandola di toglierlo perché lui non poteva vivere in collegio, in quella vita chiusa, sottomessa! Lui, così indipendente…!
S.Z.: Che cosa voleva realizzare nella sua vita?
C.G.: Una vita tranquilla. Lui è stato un padre affettuosissimo. Se vedesse quello che scrive dei suoi bambini! Illustrava persino le lettere quando dovevano mettere i denti. Disegnava le lettere col bambino che aveva messo il dentino nuovo. “Adesso deve spuntarne un altro, a sinistra”, e via…!
S.Z.: Quali furono, signora Clelia, i suoi veri amici?
C.G.: Ah…, l’unico fu Marino. Per Marino Moretti aveva un gran debole, sì!
S.Z.: Forse anche per Baldini nutrì vera amicizia?!
C.G.: Sì, anche per Baldini, anche per Baldini! Ma Moretti, così buono, così mite! Cioè, sembrava, perché Marino dice: “Sembra, ma non sono mite niente affatto!”
S.Z.: Signora Clelia, morì sereno Panzini?
C.G.: No, non si può dire… Lui non ha avuto soddisfazione alcuna. Quando ha lasciato la scuola, il Ministero non s’è neppure ricordato di mandargli, non so… la medaglia d’oro! La danno anche alle maestrine.
S.Z.: E gli ritirarono, con suo grande dolore, il libretto per le ferrovie, è vero?
C.G.: Ah, quando era accademico, allora aveva i viaggi gratis. S’immagini, quella è stata una delle poche gioie: poter viaggiare! Soprattutto senza spendere…!
S.Z.: Perché ride, signora?
C.G.: Perché forse lo prenderete in malaparte! E’ vero, ha la fama dell’avarizia. Avarizia!? Quando una famiglia va in rovina si tiene stretto quello che ha, più di altri che non hanno avuto scosse!
S.Z.: Sicché lei crede che Panzini ricordasse le sue esperienze famigliari?
C.G.: E’ per questo che teneva stretto il denaro! Guai se si sciupava denaro in cose inutili. Oh, in questo era tremendo. Ma faceva bene, eh!
S.Z.: Mi vuole dire qualcosa, signora Clelia, degli ultimi giorni di Panzini?
C.G.: … siamo rimasti tutti un po’ intontiti, pur sapendo che era una cosa inguaribile, … acqua alla pleura, acqua infetta alla pleura; una cosa complicatissima. I dottori avevano detto: è inguaribile, non c’è rimedio.
S.Z.: E lui lo sapeva?
C.G.: Lui no, no. Lo sapevamo io e mia figlia suora; sa che ho una figlia suora? E abbiamo detto: “facciamo finta di niente, non sappiamo niente”.
S.Z.: Si accorse tuttavia di morire?
C.G.: No. Disse soltanto ad un prete che voleva somministrargli i Sacramenti…: “Iddio mi ha… mi ha…”
S.Z.: Iddio mi ha abbandonato?
C.G.: Iddio mi ha abbandonato!
S.Z.: E il luogo della sepoltura, a Canonica, fu suo padre a sceglierlo?
Piero Panzini: Si, fu mio padre a sceglierlo. Il cimitero della Canonica è vicino ad un podere, anzi a due poderi che mio padre aveva lì. E allora, andandoli a visitare spesso, aveva adocchiato questo “luoghicciolo”, come lo chiamava lui. E disse al prete: “E’ un posticino dove ci si sta bene da vivi; ci si starà bene anche da morti!” E allora scelse. Scrisse questa sua volontà in una lettera che fu trovata da noi familiari dopo la morte. E così fu seppellito lì!
(Tratto da: Sergio Zavoli, Campana, Oriani, Panzini, Serra. Testimonianze raccolte in Romagna, Cappelli editore, 1959).
Marino Moretti
Marino Moretti nasce a Cesenatico l’8 luglio 1885, nella casa dei nonni paterni, nell’angolo tra canale e ponte sulla contrada d’accesso al paese e muore nella stessa cittadina romagnola il 6 luglio 1979. La passione per la letteratura lo portò ad interrompere la frequenza della Scuola di recitazione a Firenze (diretta da Luigi Rasi) dove conobbe Aldo Palazzeschi. Le prime raccolte di novelle e poesie risalgono al 1902 e al 1903. All’attività narrativa unisce la collaborazione con diversi giornali e riviste, compreso Il Corriere della Sera. Nel 1952 e nel ’55 ottenne tre riconoscimenti importanti: il “Premio dell’Accademia dei Lincei” per la Letteratura, il “Premio Napoli” e il “Premio Viareggio” col primo volume delle sue opere, Tutte le novelle, pubblicate ne «I Classici Contemporanei Italiani» di Mondadori.
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Sergio Zavoli: “Lei era legato da amicizia a Panzini?
Marino Moretti: Sì. Un’amicizia molto forte! Guardi, io non dovevo nutrirla per nessun altro uomo di penna, tolti i due o tre scrittori della mia stessa età, oggi molto noti, che furono addirittura miei compagni di infanzia. Notevole fu la differenza di età fra noi due: 22 anni! Il “tu” fraterno che ci demmo quasi subito li aveva aboliti.
S.Z.: Come nacque questa amicizia?
M.M.: Molto semplicemente. Bisogna risalire a prima dell’altra guerra, quando ero ancora molto giovane. Fu Renato Serra a parlare al Panzini di me, autore, allora, quasi soltanto delle “Poesie scritte sol lapis”, di cui il raffinatissimo critico, che non dovevo mai incontrare, si era occupato da poco. Fu Panzini stesso che venne a trovarmi per primo e a portarmi i saluti di Serra.
S.Z.: Da quali comuni interessi, da quali sentimenti era alimentata?
M.M.: Gli interessi comuni a tutti gli scrittori che credono avere qualcosa da dire di veramente proprio. Cioè che non potrebbe essere pensato da altri con gli stessi moti dell’anima, se non per naturali somiglianze di sentimento umano e poetico. Talvolta, come nel nostro caso, due temperamenti affini non sono portati a percorrere la stessa strada! Panzini era troppo fine psicologo per non sapere che è spesso l’indipendenza a salvaguardare l’amicizia di due che fanno lo stesso mestiere, specie quando l’uno è un grande scrittore e l’altro è soltanto colui che vorrebbe esserlo!
S.Z.: Panzini più d’una volta le mostrò le cartelle dei suoi libri prima che andassero alle stampe!
M.M.: Ho conosciuto scrittori di due generazioni e non ne ho trovato uno solo che potesse venir accostato a Panzini per semplicità e modestia di vita. Molti erano e sono gli scrittori sicuri di sé, e giustamente paghi dell’opera loro. Panzini non lo era affatto. Spesso egli veniva da Bellaria a leggermi l’ultimo elzeviro prima di mandarlo al giornale. Quasi sempre desiderava discutere con me il titolo di un libro prima di mandarlo all’editore. Se io mi permettevo di suggerirgli una variante, non era raro il caso che egli accettasse, direi a precipizio, e correggesse sotto i miei occhi. Non lo dico per menare vanto; so bene che in quel momento egli non vedeva affatto il collega artista, ma semplicemente il comune lettore per cui aveva un sincero rispetto.
S.Z.: Da che cosa era suggerito, secondo lei, questo atto di confidenza?
M.M.: Difficile dire da che cosa fosse suggerito questo atto di confidenza! Forse, Panzini non si sentiva a suo agio nella società letteraria e capiva, nello stesso tempo, che io non mi ci muovevo meglio di lui. Questa era certo un’affinità che lo spingeva alla fiducia quasi assoluta. Gli piaceva, insomma, arrivare in bicicletta da Bellaria, fermarsi davanti alla mia porta, chiamar dalla strada “Marino!” e vedere subito comparire Marino alla finestra!
S.Z.: Potrebbe disegnarmi un breve ritratto del Panzini intimo, familiare; del Panzini provinciale e borghese; del Panzini più domestico, insomma, e più facile alla semplice comprensione?
M.M.: Caro amico, qui mi pare che lei chieda troppo. D’altra parte un ritratto di lui è, più che nelle mie risposte, nelle sue stesse domande; provocate, si direbbe, dall’idea di un ritratto ideale che è, come sempre, più vero del vero!
(Tratto da: Sergio Zavoli, Campana, Oriani, Panzini, Serra. Testimonianze raccolte in Romagna, Cappelli editore, 1959).
Luigi Pasquini
Luigi Pasquini nasce il 13 febbraio 1897 nel Borgo San Giuliano a Rimini e muore il 20 marzo 1977. Insegnante di disegno, pittore (fatta eccezione per alcune opere a pastello del secondo decennio del ‘900, la tecnica impiegata da Pasquini è quella dell’acquerello), scrittore e pubblicista (ha svolto una vivace attività giornalistica sia su testate locali che regionali e nazionali), è stato un punto di riferimento nel dibattito culturale riminese. Ha stretto amicizia con Alfredo Panzini, ma anche con Marino Moretti, Manara Valgimigli e Antonio Baldini.
“Alcuni anni fa Pasquini insorse contro Carlo Muscetta, colpevole di aver detto – sulla scia di un frettoloso giudizio di Gramsci – che Panzini nutriva odio per le masse, paura e repulsione quasi “estetica” per gli operai che scioperano e per i contadini affamati di terra…
Luigi Pasquini: Panzini che odia…!? Ecco una cosa strampalata; lui, tutto candore, lui che un giorno mi scriveva: “La parola malanimo verso alcuno, mi è ignota!” Panzini che odia le masse, che odia i contadini? Egli che, capitando al mercato, comprava questo o quell’indumento per i suoi contadini. Una volta, acquistando un paio di pantaloni per Pinotti (Finotti, ndr), suo mezzadro, mi disse: “Non posso vederlo, codesto eroe moderno, lavorare con i calzoni rotti!”
Sergio Zavoli: Per quali amicizie Panzini nutriva il maggior rispetto, a quale umanità maggiormente si interessava?
L.P.: A parte le amicizie ad alto livello, cioè con i membri dell’Accademia (con i quali del resto non familiarizzava affatto), gli piaceva intrattenersi con la gente comune: pescivendole, sensali, contadini, marinai!
Non di rado lo si vedeva in piazza, a Rimini, confuso tra la folla al mercato, con il cartoccio del granturco in saccoccia o alla fiera del bestiame di Sant’Arcangelo. Contemporaneamente curava i suoi interessi di agricoltore e di scrittore, trascrivendo su pezzetti di carta i modi di dire che coglieva sulla bocca dei propri interlocutori, modi di dire che andavano poi ad aggiungersi al materiale per una nuova edizione del suo “Dizionario moderno”.
Ebbe caro Marino Moretti. Durante il tempo di Bellaria non passava giorno, si può dire, che l’uno non andasse a Cesenatico o l’altro non si recasse a Bellaria. Panzini, sempre dubbioso, leggeva spesso a Marino le sue pagine prima di darle alla stampa.
Altra amicizia particolarmente cara era quella di Antonio Baldini, al quale, morendo, lasciò la bicicletta, la compagna del “Viaggio di un povero letterato” e della “Lanterna di Diogene”.
Amava i bibliotecari, benché lui, a casa sua, non conservasse libri. Uno di questi fu Carlo Lucchesi, della Gambalunghiana di Rimini, col quale si intratteneva spesso parlando dei classici e compulsando vocabolari su vocabolari.
S.Z.: Come poté conciliare un carattere così libero, così indipendente, con i tempi difficili che allora correvano?
L.P.: Beh… ti citerò un esempio. Un esempio che vale per tutti. Ricordo la commemorazione pascoliana del 21 settembre 1924, durante un periodo assai agitato di vita politica italiana. Matteotti era stato assassinato nel giugno dello stesso anno! Panzini parlò nella sala dell’Arengo, a Rimini, presente Mussolini. Il luogo metteva veramente paura: gremito e nero di squadristi armati fino ai denti, calati dal Montefeltro, venuti dal litorale, dalla bassa ferrarese. Anche le piazze e le strade erano piene di gente armata, in febbrile attesa di ordini.
Quando Panzini cominciò il suo dire, già per l’aria c’era un sentore di intolleranza. Mussolini gli stava seduto di fronte. Secondo gli accordi, Panzini doveva leggere diciotto cartelle dattilografate, con interlineo a tre punti; roba da dire in trenta minuti, non volendo accelerare! Lui, viceversa, impiegò un’ora e mezzo, cominciando a scandire e a far più frequenti le pause proprio nei momenti in cui i clamori montavano con le grida di “basta”.
Gli stavo a lato. Leggevo ciò che stava scritto nelle cartelle contemporaneamente a lui. Pensavo: qui va a finir male. Alla settima cartella mi accorsi, terrorizzato, che oltre alle pause e alla lentezza veramente esasperanti, cominciava con le aggiunte non comprese nel testo; assente, cattedratico…!
Da un momento all’altro mi aspettavo che uno squadrista venisse a prelevarlo. Mussolini gli stava addosso con gli occhi e la sua calma, anche se pareva tale, era cosa che effettivamente faceva impressione. La massa, furente, gridava ogni sorta di improperi contro Panzini. C’era la squadraccia di Dumini, quello di Matteotti, che reclamava da Mussolini le mani libere per la progettata notte di S. Bartolomeo!
Panzini di quella giornata campale dirà:
“Nello sfolgorante mattino di settembre, Rimini presentava l’aspetto fantastico del campo dei Crociati che si desta. Invece di Crociati erano fascisti, accorsi dalle Marche, dall’Emilia, dalla Toscana. L’arrivo di Mussolini nella piazza urlante di sole e vessilli è stato qualcosa di impressionante. Forse così doveva arrivare Garibaldi; solo che, allora, le “camicie rosse” sospingevano la carrozza, ed ora le “camicie nere” sospingono l’automobile.
Sotto, la piazza tumultuava perché voleva sentire lui, Mussolini! Io ero alle prime battute del mio discorso e i volti degli amici e conoscenti mi apparvero esterrefatti per amore e per pietà verso di me. Grazie! Ma niente paura. Decisi di andare avanti adagio, anche con maggior calma, alzando quanto più potevo la voce, ma con una lentezza esasperante; e appunto nei momenti in cui andavo adagio mi rivolgevo a quei signori del “basta” e del “torna al tuo paesello!”
Ecco la conferma, inedita, di quel che io stesso ho visto. A cose fatte Mussolini gli si fece dappresso e disse: “Vi siete affaticato troppo, professore!”. E Panzini, tergendosi il sudore: “L’ho fatto per Vostra Eccellenza, signor Presidente! E, se permettete, per la cultura delle masse!” Mussolini ammiccò e gli strinse la mano.
S.Z.: L’hai sentito dolersi della sua semplice vita? Che cosa, di preciso, realizzava in Romagna?
L.P.: Ti dirò che Panzini, come Pascoli, non si è mai trovato bene dentro “l’orrida città”. Di sé aveva giustamente uno smisurato, ma sconfortato e casto orgoglio, una nascosta tristezza provocata dalla noia di vedersi attorno tanta mediocrità. Avrebbe voluto essere più compreso dai contemporanei, forse per il bisogno che sentiva di ricambiare amore e comprensione. “Ho dovuto scavare entro me stesso – confessò un giorno – e ciò è cosa dolorosa!”
“Umiliato nella carriera, respinto o posposto nei concorsi a cui dovetti partecipare per vivere, travolto in molte traversie familiari, ho mutato il dolore in quello che qualcuno, benevolo verso di me, chiamò umorismo; e che è nato, se c’è, io non so come!”
Insegnante di scuola media a Milano, poi a Roma per 40 anni, la sua mente era sempre fissa là, a Bellaria, alla “casa rossa”, la “casa cantoniera”, dove la sua fervida vita era questa: lavorava fino alle dieci, dalle dieci in poi si dava alla amministrazione rurale e ai sopralluoghi alle nuove piantagioni; poi mangiava e si buttava a letto; nel tardo pomeriggio passeggiava, solo, per le strade di campagna e per quelle che conducono al mare o riceveva qualche visita o faceva una corsa in macchina coi figlioli nei poderi poco lontani.
Questa vita di libertà, una volta, a Roma, gli fece esclamare: “Quanto era meglio, quanto più sicuro, mangiar piada assiso a un focolare di Romagna piuttosto che essere maestro nella Capitale alli ragazzini delle scuole tecniche! Non pe’ li poveri ragazzini, che sono buoni e non ne hanno colpa, ma per quel che se magna ogni dì e per il veleno che se beve; mentre in Romagna, con la piada, si mangia galletti d’estate e salsicce d’inverno; e vino, si beve!”
S.Z.: Che opinione aveva Panzini del mondo ufficiale, accademico, ministeriale?
L.P.: Ai colleghi d’Accademia dava dell’eccellenza, addolcendo alla romagnola la zeta in esse! Mi raccontava Ugo Oietti che Panzini partecipava alle sedute plenarie con le tasche piene di schede e schedine di ogni forma e origine, magari il rovescio di una busta o di una bozza di stampa, e s’andava a sedere accanto al giurista o all’archeologo, al filologo o all’astronomo e, sottovoce, educatamente scusandosi, domandava che cosa volesse dire veramente quella nuova parola che aveva udito in un discorso.
La sua opinione sul mondo accademico era fondata su considerazioni di carattere vario, complesso, qualche volta paradossale, in cui faceva spesso capolino l’ironia, la sua terribile e temuta ironia!
S.Z.: Che cosa lo spinse a prendere la via delle grandi città?
L.P.: Bellaria… era il suo luogo di produzione, mentre la grande città era il luogo per … smerciare il prodotto. La provincia è sempre la provincia e, per quanto voce robusta tu abbia, ti par sempre di gridare da dietro una inferriata.
S.Z.: Che cosa gli attirò l’accusa di reazionario, la più dolorosa e la più rifiutata fra quante gli mossero i romagnoli?
L.P.: Panzini nacque da famiglia benestante. Babbo e nonno materni furono medici. Doveva diventare medico anche lui e invece, vinto un premio per la Facoltà di lettere all’Università di Bologna, abbandonò l’idea della medicina e diventò letterato. Panzini non ha mai accettato per oro colato tutto ciò che produce la cosiddetta modernità. Volle sempre dire la sua, fu un originale. C’è poco da dire: fu un individualista! Era rimasto professore anche giù dalla cattedra…
Avrebbe voluto essere capito in ogni sua manifestazione. Oltre ai libri, scriveva articoli che buttava giù con la voglia matta di pestare i piedi a qualcuno. Ed erano spesso grane! E spesso accadeva che venisse tartassato sul marmo della vivisezione critica e politica. Più che reazionario, una frase abusata e senza senso se gli togli quello giusto e virile di colui che reagisce, direi Panzini conservatore, conservatore cioè di quel poco di buono che ogni generazione, passando, lascia nel mondo. Comunque, credo che l’accusa di reazionario abbia avuto la sua origine con la pubblicazione del “Libro dei morti”, il primo lavoro di Panzini pubblicato sul finire del secolo; un libro attuale, ancora oggi utile per la revisione del termine reazionario.
S.Z.: Che cosa rappresentavano per lui i poderi, i contadini e certo benessere borghese?
L.P.: Lo dico con le sue parole. Rivolto alla moglie e ai figli, un giorno di aprile del 1939 (è morto il 10 aprile, il lunedì dell’Angelo!), approssimandosi la guerra e sentendosi di morire. raccomandò loro l’unico rifugio. la terra! I poderetti di Romagna, frutto di 40 anni di fatica. “Il pane, disse, non vi mancherà. Terra, significa il pane!”
S.Z.: Fu fedele fino in fondo alla Romagna? Egli non era stato sempre tenero con la sua terra.
L.P.: Figlio di Romagna, volle riposare qui. Questo basti. Ad Aldo Spallicci che era andato a salutarlo durante l’ultimo autunno romagnolo, disse: “Rimanete fedele alla Romagna! E’ la terra ove rimane ancora quel po’ di buono che resta nel mondo”.
(Tratto da: Sergio Zavoli, Campana, Oriani, Panzini, Serra. Testimonianze raccolte in Romagna, Cappelli editore, 1959).
Aldo Spallicci
Il testo che segue, di Aldo Spallicci (deputato alla Costituente e poi senatore della Repubblica, medico e personaggio influente della cultura romagnola del Novecento, nato a Santa Croce di Bertinoro il 21 novembre 1886 e morto a Premilcuore nel 1973), è tratto da “In Romagna con Panzini”, pubblicato su “Vie d’Italia”, ottobre 1963, nel centenario della nascita di Panzini.
“Era tutto felice quando poteva salire in treno e piantar lì la scuola e i “regazzini”, e venirsene alla sua romita casa di Bellaria sull’Adriatico. Il silenzio era turbato solo dal fumoso trenino che passava sotto alle ore ben note, per cui si potevano chiudere a tempo le imposte a impedire l’aggressione del fumo nelle stanze. Del resto era il fruscio del vento fra i pinastri e l’eterna canzone del mare. Felice come quando sulla soglia dei quarant’anni poteva dare un addio alla scuola e, “dall’alto della sua vecchia bicicletta”, oltrepassare il dazio milanese di Porta Romana e iniziare l’itinerario della Lanterna di Diogene che, pur attraverso varie deviazioni montane, aveva la stessa meta bellariese. Talvolta “apriva la finestra prima che si levasse il sole. La finestra dà sul mare verso l’oriente: tutto il ricamo delle stelle ardeva ancora; poi quella luce azzurrina schiariva: poi la palpebra del sole si apriva”. Salutava la rossa aurora e, indossando un accappatoio che gli dava un curioso aspetto fratesco e calzando un imbuto di berretto bianco, faceva la sua passeggiata lungo la spiaggia.
La casa, la “casetta sul mare”, era sua. Era riuscito lui, povero professore di liceo, a farsela, mattone su mattone, con quei “quattro stracci” che parevano rappresentare tutto il suo patrimonio. E aveva voluto scriverla sulle pareti la parola dello sprezzo e della povertà: “stracci stracci”, quasi per gridare ai quattro venti la sua orgogliosa proprietà, affermarsi nonostante la sua pretesa povertà.
Ora sulla fronte che dà sulla ferrovia un marmo dice di lui (l’epigrafe, dettata da uno dei figli, parla così: “Dal sole dal cielo dal vento ispirato / in questa casa / Alfredo Panzini / scrisse pagine umane / che il tempo non disperderà/”), e sulla parete che si presenta a chi varca il cancelletto all’ingresso, sale una parietaria a rivestire la casa di un fresco verde silenzioso. E andava sostando e socchiudendo gli occhi dietro le lenti davanti alle carni abbronzate di qualche bella bagnante, perché non era insensibile al fascino della bellezza femminile, lui che aveva rievocato con tanto vivo compiacimento “le candide carni” e le “meravigliose pupille di Lesbia”.
Così, un giorno si era accompagnato alla fiorente giovinezza di Renato Serra, mentre “le onde azzurre si venivano umilmente a smorzare su le arene, i grandi corpi delle donne, distese su la sabbia, entro gli accappatoi, volgevano verso di noi gli occhi indolenti”.
Un mare accogliente e non insidioso come quando tirava il “garbino” (affrico, libeccio), che soffiando da terra cancella ogni traccia di onde e invita gli inconsapevoli a tuffarsi, “invece il mare porta in fuori e lavora sotto le bugie dell’arena”. E gli inconsapevoli finiscono per non trovare più la via del ritorno. Lungo quel suo mare dove sotto quattro frasche e un tavolaccio si affettavano le rosse angurie che, “come dicono a Napoli: si mangia, si beve e si lava la faccia”.
Nella sua “casetta” aveva scritto La Madonna di Mamà, Il bacio di Lesbia, e vi aveva incominciato Il padrone sono me, in cui si narrano le agitate vicende del periodo che seguì alla guerra del 1915-18, quando il disagio e le delusioni avevano preso il sopravvento e i contadini e i braccianti facevano paura ai “signori” proprietari delle “ville”, sparando schioppettate nella notte e cantando “viene Lenin!”.
Lo ricordo negli ultimi anni di sua vita, quando, sulla soglia della villa, congedandosi mi aveva tenuto a lungo la mano nella sua “… e tenetevi fedele alla Romagna, il paese ove c’è ancora qualcosa di buono e di onesto”. Non c’erano, allora, i torbidi giorni della minaccia comunista, ma il mito del “padrone sono me” era suggellato col pugno delle costruzioni di una Roma di cartapesta. Panzini aveva finito da poco la storia di Catullo e delle bastonate che s’era buscate da certi squadristi del suo tempo. “Alcuni scherani di quello svergognato di Mamurra” gli s’erano fatti incontro “con certi loro randelli” e l’avevano conciato per le feste. Ma questo succedeva ai tempi di Catullo e di Clodia. E Panzini strizzava l’occhio.
Oltre alla sua “casetta”, egli amava le aie assolate del contado, ove appunto si svolge tutta la vita del figlio Mingòn, Zvanì, che si finge autore del romanzo. Qui c’è no solo la viva voce popolare, riportata con fedeltà fotografica, ma tutto il costume e tutta la mentalità della gente dei campi che egli prediligeva. Chi voglia entrare nel mondo di questi lavoratori, non vada ad ascoltare le concioni dei capi-popolo, e non legga i giornali politici, ma scorra le pagine di Panzini. Un’umanità davvero a contatto con le stagioni e con la durezza della vita, che segue il corso degli astri e ne trae ammaestramenti e timori, che interpreta a suo modo la religione e il mistero dell’al di là. Gente che considera i “poeti” uomini fuori della realtà, un po’ bizzarri, anzi matti del tutto.
Le case, le vecchie case coloniche, coi pagliai di paglia e di fieno e coi nidi delle rondini alle grondaie, le rondanine, che, al dire della padrona, lanciano un piccolo grido come un riso di bambino.
(…)
Manara Valgimigli
Manara Valgimigli nacque a San Piero in Bagno (oggi provincia di Forlì-Cesena, allora provincia di Firenze) nel 1876. Anche lui, come Panzini, allievo di Giosuè Carducci all’università di Bologna, dopo la laurea insegnò in vari licei italiani. Nel 1922 vinse il concorso per la cattedra di letteratura greca all’università di Messina e in seguito insegnò all’università di Pisa e, fino al 1948, in quella di Padova. Morì a Vilminore di Scalve (provincia di Bergamo) nel 1956.
Ha tradotto Sofocle, Eschilo, Saffo, Platone e Aristotele, ha scritto saggi, poesie e libri autobiografici. Iscritto al Partito socialista italiano, fu amico di Pietro Nenni e di Sandro Pertini.
Manara Valgimigli: “Come lo ricordo Panzini? Eh, lo ricordo in gesti curiosissimi che lui aveva, specialmente a Bellaria, d’estate, quando vi andava con un certo cappello alla Raffaello, un grosso berretto alla Raffaello che gli spioveva per tutto il volto. Ma quando incontrava una signora era buffissimo perché si levava il cappello con impeto e poi batteva i tacchi come un capitano dell’esercito!
Sergio Zavoli: In quale occasione conobbe Panzini?
M.V.: Io l’ho conosciuto la prima volta, se non sbaglio, a Messina, nel ’22 o ’23. Era venuto a Messina per un’ispezione, credo, a qualche scuola media. E mi ricordo che il Panzini allora stava correggendo bozze della prefazione ad una sua raccolta dell’ “Orlando innamorato” del Bojardo. Questo dell’ “Orlando innamorato” del Bojardo è stata sempre una curiosissima passione amorosa del Panzini, della quale un giorno riparlerò.
S.Z.: Ebbe familiarità con lui? Lo vide per lungo tempo, o no?
M.V.: Una certa dimestichezza si realizzò in una occasione fortunatissima, quando cioè Pancrazi aveva a Bellaria un fratello in villeggiatura ed io andai a trovarlo. Stetti lì una buona settimana, nella quale è naturale che ci vedessimo spessissimo con Panzini. Ci si incontrava anche con Marino Moretti che andavamo a trovare a Cesenatico. E c’era anche Antonio Baldini, a Viserba. Ecco, quelli furono i giorni, diciamo così, in cui io vissi più lungamente con lui, ebbi più consuetudine con lui. E si giocò anche a scopone!
Ora io, di Panzini, ho raccolto qualche anno fa alcuni scritti non del tutto inediti, ma come se fossero inediti perché in realtà erano pubblicati in giornali che poi nessuno leggeva. Ricordo che tra questi scritti inediti, e mi compiaccio molto di averla scovata io, trovai una delle più belle pagine non solamente di Panzini, ma credo della letteratura italiana di questi ultimi tempi: una pagina confinata in un giornale di Cesena, una cronaca, una pura e semplice cronaca locale di Cesena in cui Panzini racconta come dal fronte, dal vecchio fronte dell’altra guerra, fu ritrovato il cadavere di Serra e fu riportato a Cesena. Panzini racconta come aspettavano questo camion che doveva venire e non arrivava, ed eran tutti lì, in attesa che questo camion arrivasse. Poi, finalmente, Panzini scrive questa frase che mi pare veramente grande: “… si vede arrivare il camion, impolverato delle strade d’Italia!”
(Tratto da: Sergio Zavoli, Campana, Oriani, Panzini, Serra. Testimonianze raccolte in Romagna, Cappelli editore, 1959).
Manara Valgimigli intervistato da Ferdinando Camon (Il Gazzettino Letterario, 24 Dicembre 1963):
Che cosa ha appreso Panzini dalla scuola carducciana? I critici, in generale, rispondono che ha imparato una lezione di stile.
“Più che una lezione di stile, che è parola vaga, io direi che ha ricavato il senso della responsabilità dello scrivere: non si scrive alla carlona, non bisogna buttar giù, come fanno molti: Panzini ebbe alto il senso del decoro della parola”.
Quindi, Panzini, a sua volta, ha dato una lezione ai contemporanei?
Una grande lezione: Panzini è uno dei nostri migliori stilisti, rigoroso e sorvegliatissimo: pensa se non ha dato una lezione al suo tempo, che era poi il tempo del dilagante dannunzianesimo.
Quand’era a Ravenna, Lei si recava spesso alla casa Panzini?
Sì: la casa col treno, la chiamavano, o anche il casello, per certa somiglianza coi caselli ferroviari. Ma Panzini era morto presto, nel ’39. Io l’avevo visto poche volte. Piuttosto ho avuto lunga amicizia con la signora Clelia, sua moglie. Pittrice. La quale era estrosa, sventata, elegante, multicolore nei vestiti e perfino nelle scarpe, mentre il marito era piuttosto preciso, attento, diligente e parsimonioso nelle spese.
Dov’è, secondo lei, il meglio del Panzini? Nei libri di viaggi?
Panzini non ha grandi scadimenti: le opere della maturità sono tutte buone. Bellissimi, certo, i libri di viaggi.
Possono ricordare quelli di Sterne o di Heine?
Ma no: è stato detto anche questo, lo so, ma per me Panzini è inconfondibile.
Un autore, insomma, di cui si fa bene a ricordare il centenario?
Benissimo, non bene. Panzini ha lasciato nelle nostre lettere una traccia originalissima. Il Gazzettino gli dedica una terza pagina? Sarà quasi un invito a Panzini, come quello che fece Pancrazi anni fa. Guarda se lo trovi, leggimelo”, e così dicendo si rivolge a una sua fedele assistente, Maria Vittoria Ghezzo. La quale si dirige a colpo sicuro nella ricca biblioteca del professore, estrae il libro e incomincia a leggere. Valgimigli, a ogni frase, fa cenno di sì, di sì col capo ed ogni tanto esclama: “Che bravo questo Piero!”.